Chi acquista un computer con un sistema operativo integrato e decide di non accettare la licenza d’uso del programma può richiedere il rimborso delle spese pari al valore del software. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, che si è espressa dopo la denuncia presentata da un consumatore fiorentino contro la Hewlett-Packard e gli ha riconosciuto il diritto a vedersi restituire 140 euro, valore stimato del programma Microsoft pre-installato nel suo pc. L’azienda produttrice dell’hardware, Hp appunto, aveva negato il rimborso sostenendo che la vendita del computer prevedeva l’acquisto di tutto il “pacchetto”. Le motivazioni del marchio americano, però, sono state smentite dai giudici della Suprema Corte: “Vendere un computer con sistema operativo nel pacchetto – spiega la sentenza – risponderebbe a una politica commerciale finalizzata alla diffusione forzata di quest’ultimo nella grande distribuzione dell’hardware”. Tradotto: non si può obbligare l’acquirente di un computer ad acquistare un software che non sia legato ad esso “per esigenze tecnologiche, bensì per fini di tipo commerciale“. La sentenza rompe un sistema che gli stessi giudici definiscono organizzato in maniera “tendenzialmente monopolistica”.  

La decisione dei giudici potrebbe aprire la strada a una rivoluzione sul mercato dei personal computer. Mettendo a rischio la leadership di Microsoft, che in Italia offre sistemi operativi preinstallati sui pc. Da oggi, infatti, i clienti possono decidere di acquistare un computer, rifiutare l’uso del sistema operativo, non pagandolo, e installarne un altro. Non per niente l’associazione dei consumatori Aduc, che ha promosso la causa pilota, ha auspicato “una valanga di ricorsi che potrebbero essere accolti dai venditori di pc anche dopo la prima raccomandata in cui si intima il rimborso e, nel caso ciò non dovesse accadere, l’eventuale iter giudiziario che consigliamo sarebbe più facile”.

L’Aduc aveva fatto ricorso in materia davanti a un giudice di pace già nel 2005, ottenendo una sentenza favorevole nel 2007. Poi, ricorda l’associazione in una nota, “Microsoft aveva impugnato la sentenza in Appello, e nel 2010 la ragione ci era stata ancora riconosciuta; nel frattempo avevamo fatto ricorso anche all’Antitrust, che, anch’essa, aveva riconosciuto le nostre ragioni come valide”. 

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