Il crocevia tunisino
domenica 26 marzo 2023

La grande fragilità tunisina fa tremare Roma e Bruxelles. Ma non è solo questione di flussi migratori: è in ballo la stabilità finanziaria e politica di un Paese strategico. La Tunisia ha solo 12 milioni di abitanti, e quindi non è “troppo grande per fallire”. È, però, troppo importante per i forti legami economici storici e culturali, per vicinanza e interconnessione, perché la Ue – Italia e Francia in primis, dove la diaspora tunisina è consistente – non tenti a tutti i costi di sostenerla e salvarla dal caos.


Fermare l’ondata record di arrivi di persone profughe e migranti dall’area subsahariana, in partenza perlopiù da porti della Tunisia, è una “priorità” comprensibile. Anzitutto per prevenire i viaggi della morte su barchini improvvisati, diretti a Lampedusa. Pare infatti assai poco probabile che nei prossimi sei mesi possano arrivare in Italia via mare i 900mila esseri umani evocati dalla premier Giorgia Meloni, probabilmente un po’ per propaganda interna e molto per spaventare i Paesi nordici tradizionalmente scettici nel metter mano al portafoglio quando si tratta del Mediterraneo (ormai da anni il grosso di chi approda in Italia, in Italia non intende fermarsi più). Per quanto porosi siano i confini tunisini con Algeria e Libia, per quanto dal Sahel al Corno d’Africa i sensori sulle rotte umane stiano pizzicando fortemente, la Tunisia in grande crisi non è implosa come la Libia e non c’è guerra civile. Le istituzioni resistono, come resistono l’opposizione e i sindacati e, tra molte difficoltà, restano aperte pure le testate giornalistiche.

Occorre distinguere. I dati dicono che sono cittadini di Paesi subsahariani a scappare dal razzismo e dall’ostilità scatenati dal discorso xenofobo pronunciato lo scorso 20 febbraio dal presidente Saied, che ha trovato nei profughi un comodo capro espiatorio accusandoli di esser parte nientemeno che di un progetto di “sostituzione etnica”. Frasi razziste sentite anche ad altre latitudini e condannate dalla comunità internazionale compatta, ma le condanne non bastano a placare i pogrom nelle periferie di un Paese incattivito dagli effetti della pandemia – che ha ammazzato il turismo di massa – e dalla guerra in Ucraina che ha provocato una forte inflazione, mentre i generi alimentari di base spesso spariscono dai supermercati.

I tunisini per ora, pur soffrendo, non stanno lasciando in massa il Paese e, nonostante la crescente disperazione, attendono. Delusi dalla democrazia arrivata dopo la “rivoluzione dei gelsomini” del 2011, minata dall’incapacità dei politici e dalla corruzione, hanno eletto presidente Saied, un accademico rivelatosi un campione dell’antipolitica, che in nome della lotta alla corruzione ha portato all’estremo un disegno di democrazia diretta che sta conducendo di nuovo all’autocrazia.La vera partita è lo sblocco del prestito di 1,9 miliardi di dollari alla Tunisia del Fondo monetario internazionale, ritenuto da osservatori e diplomatici fondamentale per evitare il collasso delle finanze pubbliche.

Saied sa che i tunisini scenderebbero in piazza se si seguissero le ricette del Fmi, sforbiciando i potenti colossi statali e abolendo i sussidi a benzina e pane. Ma senza il Fondo non può evitare il default. Perciò, forse imitando l’omologo turco Erdogan e i capi dei due governi libici, sta usando le partenze irregolari dalle sue coste per battere cassa con l’Italia e l’Europa. La Ue può e deve battere un colpo in Nor-dafrica assumendosi il compito di mediare anche con Washington.

Già domani il commissario Gentiloni sarà a Tunisi, dove incontrerà presidente e governo per discutere delle riforme previste e delle modalità di un’eventuale nuova operazione di assistenza macro-finanziaria della Commissione. In più, si sta organizzando la visita nel Paese nordafricano della commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson, con i ministri dell’Interno italiano Matteo Piantedosi, e francese Gerald Darmanin. Anche l’Italia può e deve essere protagonista di questa fase e non solo perché ha importanti interessi economici ed energetici strategici nel Paese rivierasco, di cui è primo partner commerciale. Se al momento il realismo impone di affidarsi a Saied, unico interlocutore e laico convinto in un Paese dove resta forte il partito islamista, Roma – che è vista meglio di Parigi, ex capitale coloniale – non può limitarsi a concepire la Tunisia come “Stato tampone” di flussi migratori.

Dovrebbe, piuttosto, usare la propria influenza per ottenere la liberazione di oppositori, giornalisti e sindacalisti arrestati e per convincere Bruxelles a non abbandonare Tunisi a una deriva affaristico- autocratica. La costruzione del comune destino euro-africano passa necessariamente da questo crocevia.

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