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Il libro sviluppa il tema del permanere del fascino della figura mariana anche tra i non credenti. Come nota l’autore, la Vergine è presente, fin dagli inizi del cristianesimo, nell’arte, nella letteratura, nella musica, nonostante il suo apparente silenzio. Sì, perché Maria «parla» pochissimo nei Vangeli, ed è da questa umile assenza di visibilità verbale che nasce il grande fascino mariano. Il suo silenzio, scrive Ravasi, è «eloquente», perché è l’espressione per eccellenza dell’umiltà e dell’accettazione del volere divino.
Nonostante l’epiteto – a partire dal concilio di Efeso del 451 – di Theotokos, cioè «Madre di Dio», la grandezza di Maria è proprio quella di non desiderare visibilità, di non apparire per condividere lo scenario con il Figlio: «Alla prevaricazione della parola aggressiva e orgogliosa, Maria contrappone la parola “minore” per eccellenza, anzi, il suo grado “zero”, il silenzio dell’ascolto che, nella Bibbia, è per eccellenza l’atto di fede» (p. 137).
L’autore prende in esame le sei frasi di Maria riportate dai Vangeli, più l’eloquente silenzio con il quale la Vergine accoglie le ultime parole del Figlio in croce – «Donna, ecco tuo figlio […]. Ecco tua madre» –, presenti in Gv 19,26-27. Un silenzio talmente significativo da poter essere considerato testimonianza abissale del dolore e di quanto «in lei risuonasse forte e profonda la voce interiore» (p. 133), un vero e proprio messaggio di accettazione dolente e, al tempo stesso, di insegnamento per la Chiesa.
I sei momenti in cui Maria prende la parola sono i due della risposta all’angelo nell’Annunciazione; la replica alla lode di Elisabetta, conosciuta come il Magnificat; il rimprovero materno al Figlio nell’episodio lucano dello smarrimento di Gesù nel tempio a Gerusalemme; e le due interlocuzioni della Vergine al momento della mancanza del vino alle nozze di Cana.
Dalla dettagliata esegesi delle fonti emerge quella caratteristica del cristianesimo che Kierkegaard ha chiamato «il paradosso», vale a dire il rovesciamento dei valori rispetto alla cultura filosofica classica. Il card. Ravasi opera una giusta attenuazione di quelle che sono state considerate vere e proprie mancanze di riguardo di Gesù verso la Madre, soprattutto a Cana, quando egli pronuncia la frase: «Che c’è tra me e te?» (Gv 2,4). In realtà, questo era un modo di dire piuttosto comune anche nell’Antico Testamento, che sottolineava «la diversità dei punti di vista» (p. 113) in alcuni contesti in cui emergevano interpretazioni non condivise, se non opposte, di avvenimenti o situazioni. Ed è in questo contesto che va rivista anche l’interpretazione negativa dell’appellativo «donna», modalità discorsiva piuttosto usuale nelle formule colloquiali nelle culture semitiche del tempo.
In particolare, il card. Ravasi mette in luce la «continuità» della figura di Maria rispetto alle Scritture: il ribaltamento dei ruoli vede nella Vergine l’elemento chiave che getta un ponte tra l’Antico e il Nuovo Testamento, perché è da lontano che provengono le figure del povero, dell’umile e del reietto che saliranno in alto, e quelle del sazio, dell’accumulatore e dello speculatore che da un «alto» apparente verranno scaraventate in basso.
Ed è da qui che prende forza il discorso sociale di vicinanza, da parte della Chiesa, ai sofferenti, per discriminazioni o per fame, per malattia o per motivi politici. Maria è il segno di questa attenzione: segno che non scaturisce dall’effluvio di parole, dall’esibizione di saggezza, ma dal suo essere silenziosa e umile ancella del progetto divino.
GIANFRANCO RAVASI
Le sette parole di Maria
Bologna, EDB, 2020, 152, € 12,00.