“Cambiate tutto, tranne la moglie e i figli”. Il momento fondativo nella mitologia di Samsung è un ritiro aziendale in un hotel di lusso di Francoforte, nel 1993. Sei anni prima Lee Kun-hee, minore di tre fratelli, aveva ereditato le redini dell’azienda fondata dal padre.

Un marchio conosciuto soprattutto per televisori a basso costo, che lui voleva sollevare al top della gamma. Di fronte al management tutto, schierato per ore in religioso silenzio, Lee teorizzò quel senso di urgenza, di sfida per la sopravvivenza, che avrebbe fatto di Samsung un campione hi-tech globale e che sopravvive ancora oggi.

 
Più che un campione, il campione. L’azienda coreana è numero uno al mondo nelle industrie che plasmano il nostro presente. Prima per smartphone venduti davanti ad Apple, primo produttore di microprocessori. I nuovi assunti vengono ancora portati a visitare la riproduzione di quella sala Francoforte, ricreata nel quartier generale di Seul con mobili importati dalla Germania. 

Lee Kun-hee, per tutti il presidente, è morto domenica a 78 anni. Presidente lo era ancora, nonostante l’infarto che sei anni fa lo aveva ridotto allo stato vegetativo, proiettando al vertice della società il figlio.
 
Con lui la Corea del Sud, oltre che il suo uomo più ricco, perde soprattutto il simbolo più illustre del suo capitalismo. Nel bene, visto che Lee e gli altri sono stati i protagonisti del miracolo che ha trasformato un Paese di agricoltori in una delle economie più avanzate del pianeta. E nel male, perché il potere e l’influenza gli hanno portati al punto da sentirsi spesso e volentieri al di sopra delle leggi e della politica.
 

La carriera di Lee Kun-hee


I guai di Lee, educato in Giappone e poi negli Stati Uniti, cominciarono nel 2008, quando gli fu formalizzata l’accusa di evasione fiscale.

Si dimise, salvo ottenere due anni dopo la grazia dal presidente e tornare trionfante al vertice della società. Peccato che quel perdono era stato comprato a suon di mazzette. Un rapporto incestuoso con la politica, in particolare il campo conservatore, che si sarebbe riproposto tale e quale per il figlio Lee Jae-yong. Oggi è lui vice presidente e guida della società, a sua volta condannato per aver corrotto la presidentessa Park Geun-hye.

Il successo di Samsung

Quello che oggi è Samsung è il risultato di questa complessa eredità. Per la prima azienda IT per fatturato al mondo, oltre 400 miliardi di dollari di capitalizzazione, gli affari continuano ad andare a gonfie vele. La leadership nel settore dei microprocessori, per citarne solo una, la rende riferimento inaggirabile nella tecnologia chiave dei prossimi anni, cuore del conflitto tra Cina e Stati Uniti. Ma dal punto di vista societario le ombre non si sono diradate.

La promessa del presidente Moon di riformare l’oligopolio familiare dei chaebol, a benefico di regole e concorrenza, è rimasta in larga parte lettera morta. La morte di Lee, che lascia in eredità un significativo pacchetto azionario, aprirà una fase di successione che si annuncia intricata, come la rete di partecipazioni incrociate con cui la famiglia controlla il conglomerato. Mentre progetta il futuro della società Jae-yong, 52 anni, conosciuto in Occidente come Jay Y. Lee, continua a essere inseguito dai procedimenti penali e non è escluso che possa tornare in carcere. Intanto, ha già detto che non passerà il comando dell’azienda ai figli, quarta generazione di Lee.