La roccia della fede

La scomparsa di Armando Aste – A 91 l'alpinista roveretano lascia una testimonianza di fede e di umanità riconosciuta anche nel mondo laico

“Ho pregato tanto il Signore perchè mi dia un cuore nuovo, di carne, al posto di questo cuore di pietra”. A 75 anni Armando Aste si confidava così a Vita Trentina, riferendosi alla “mazzata tremenda ” della malattia che aveva ridotto il fratello Antonio a vita vegetativa. Per poterlo aiutare Aste a soli 58 anni aveva abbandonato per sempre in Patagonia i chiodi e la piccozza ed aveva deciso di dedicarsi ogni giorno all'assistenza: “Questa adesso è la mia vera cordata. Mio fratello è più importante del Cerro Torre e di ogni altra cima”.

In quest'appiglio granitico al Signore – una fede mai esibita ma anche mai nascosta per paura di andare controcorrente – possiamo fissare una sintesi della scelta di vita di Armando, scomparso a Rovereto venerdì primo settembre a seguito di un blocco intestinale. Non si è spenta solo l'esaltante avventura di uno dei rocciatori più forti del secondo dopoguerra e della “massima autorità morale dell'alpinismo italiano” (così lo hanno ricordato gli amici laici del Cai, di cui era accademico, e della SAT), ma anche la voce di un “catechista, cercatore d'infinito” che ha lasciato grandi pagine di spiritualità della montagna: da “Cuore di roccia” del 1988 a “Pilastri del cielo” (2000) e altri testi fino a “Commiato” e “Le stagioni della mia vita”, Aste continua a vivere nelle pagine meditate. Non tanto i diari delle sue epiche imprese in solitaria (dal Basso alla Cima Ovest di Lavaredo) o con tanti amici fidati, quanto le inossidabili riflessioni sul dono della natura – non è un caso che sia morto nella Giornata mondiale del Creato – e delle montagne: “Le vette sono i capolavori di Dio, il grande artista – sottolineava – noi siamo solo dei pittori che cercano di ripeterle”. Un’umiltà raffinata negli ultimi anni anche dagli acciacchi, ma sempre riconosciuta dai compagni per i quali è stato – come è stato detto al funerale – “il fratello maggiore”, “il più generoso”.

Nato a Isera il 6 gennaio 1926, sapeva di essere un pezzo da Novanta, ma si considerava comunque “un pover’uomo”, “un alpinista in congedo”, uno scout fedele al motto del servizio (Estote Parati), che non si lascia affascinare dalla prima cima: “dopo che ne ha vinto una, ce n’è sempre un’altra”, e ripeteva che “il Signore non mi chiederà quante scalate ho fatto, ma se ho amato veramente i più bisognosi”.

La sua generosità emerse anche all'Auditorium Santa Chiara, in una delle tante serate del Filmfestival a lui dedicate, quando il collega Mariano Frizzera rivelò: “Non avevo i soldi per partecipare alla spedizione al Fitz Roy, essendo un operaio con tre figli piccoli, e Armando me li prestò perchè potessi partire per la Patagonia”.

Teneva all’amicizia come si legge in “Alpinismo epistolare” e Angelo Miorandi, che lo ha salutato al funerale, ricorda bene quando nel 1955 incontrarono al rifugio due alpinisti lombardi, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi, che tentavano come loro la stessa “prima” sulla Cima d’Ambiez: alla sera si misero d’accordo per procedere con una guida alternata e aprirono insieme così la mitica “Via della Concordia”.

Nel 1964 sulla Sud della Marmolada Aste aveva inaugurato con Franco Solina la “Via dell’Ideale” considerata da Messner una breccia nelle frontiere dell’alpinismo. Armando la ammirava nelle gigantografie della sua casa di Borgo Sacco, ma il suo vero ideale rimaneva peraltro intimo, spirituale. Lo condivideva con il fratello Franco, apprezzato poeta, che esprimeva così l’affidamento al Signore nel sostegno al fratello Antonio: “Aggrappati ad una fedeltà che ci dispone ad affrontare qualunque prova – scrivevano nella loro preghiera – ci ostiniamo a tenere la porta aperta, decisi a non lasciar spegnere la speranza neanche se dovremo consumarci in una interminabile veglia”.

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