C’è un enzima che mangia la plastica

Un gruppo di ricercatori britannici sta cercando di potenziarlo per fargli digerire bottiglie e altri rifiuti, per riciclarle meglio

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)

Un gruppo di scienziati del Regno Unito vuole migliorare il funzionamento di un enzima che digerisce alcuni tipi di plastica. Il risultato potrebbe portare in futuro a nuovi sistemi per smaltire il polietilene tereftalato (PET), la resina termoplastica con cui sono prodotte buona parte delle bottiglie per l’acqua e altri contenitori per alimenti. La ricerca per la modifica dell’enzima è molto promettente, così come lo sono i primi risultati di laboratorio, ma elaborare un sistema su larga scala per smaltire il PET non sarà semplice e richiederà anni di sviluppo.

L’enzima – chiamato non a caso PETasi – è stato scoperto negli ultimi anni in seguito all’identificazione dell’Ideonella sakaiensis, un particolare tipo di batterio che si mantiene nutrendosi principalmente di plastica. Per riuscire a digerire e metabolizzare le molecole della plastica utilizza alcuni enzimi, compresa la PETasi. La scoperta del batterio fu pubblicata nel 2016 sulla rivista scientifica Science e fece molto discutere, proprio perché sembrava dare nuove speranze per elaborare sistemi alternativi al riciclaggio e che permettano di smaltire meglio il PET. Una colonia di batteri riesce a digerire piccoli frammenti di pellicola di plastica in poche settimane, ma i tempi variano a seconda della grandezza della colonia e dalla superficie da smaltire.

I poliesteri, cioè il gruppo cui appartiene il PET, esistono in natura e fanno per esempio parte del rivestimento protettivo di alcune foglie. Diverse specie di batteri ne approfittano da milioni di anni e si sono evoluti, adattandosi ai cambiamenti necessari per continuare a proliferare basando la loro dieta su questi composti. Il PET è una delle plastiche più diffuse in tutto il mondo e una delle principali fonti di inquinamento dei fiumi e dei mari, eppure è in circolazione in grandi quantità da poco più di 50 anni: è quindi notevole che in un tempo così breve una specie di batterio si sia evoluta per nutrirsi di qualcosa che non esisteva prima in quella forma, creata dagli esseri umani.

I poliesteri prodotti industrialmente sono derivati dal petrolio e sono utilizzati per produrre molti tipi di plastica, che ci passano per le mani quotidianamente. Attraverso la loro raccolta e il riciclo possono essere utilizzati per produrre nuove cose, riducendo lo sfruttamento delle materie prime e soprattutto il problema dell’accumulo dei rifiuti. A ogni riciclo, però, queste plastiche perdono alcune delle loro caratteristiche, diventando meno adatte per essere trasformate in materiale di qualità. Dalle bottiglie usate si possono ricavare isolanti termici, abiti sintetici e altri oggetti, ma dopo un certo numero di ricicli diventa più economico portarli in discarica o incenerirli. L’aggiunta di additivi chimici o di miscele che comprendono plastiche nuove e riciclate può attenuare il problema, ma non è comunque risolutiva.

Incuriositi dalla capacità dell’Ideonella sakaiensis di nutrirsi di plastica, i ricercatori dell’Università di Portsmouth nel Regno Unito hanno analizzato il principale enzima che rende il PET digeribile per questi microrganismi. Hanno prodotto un modello 3D virtuale dell’enzima, basandosi su alcune osservazioni eseguite al microscopio elettronico, che ha permesso di comprenderne meglio la forma e la struttura. L’analisi ha permesso di identificare alcuni punti deboli dell’enzima, che possono essere corretti per potenziare gli effetti della PETasi, e quindi accelerare i processi di smaltimento della plastica.

Secondo i ricercatori, la PETasi ha la capacità di riportare i poliesteri a un livello molecolare di base, paragonabile allo stadio di partenza di quando si produce nuova plastica partendo dal petrolio. Arrivare a una produzione su larga scala dell’enzima non sarà semplice e richiederà anni di sviluppo. La PETasi potenziata in laboratorio dovrà inoltre essere in grado di disgregare il PET a una velocità maggiore rispetto all’attuale. Solo con tempi più rapidi potrà infatti essere un sistema economicamente sostenibile, oltre che vantaggioso per l’ambiente e la riduzione della quantità di rifiuti in circolazione.