21 settembre 2017

Un piccolo verme ci spiega perché invecchiamo

I geni che controllano l'autofagia, grazie alla quale le cellule si liberano delle scorie, hanno una notevole influenza anche sulla longevità. Il risultato è emerso da uno studio sul verme C. elegans e potrebbe essere importante anche per la specie umana(red)

Perché invecchiamo? La domanda potrebbe sembrare ingenua, e qualche biologo o qualche medico potrebbe abbozzare una risposta, spiegando i processi che fanno sì che tessuti, organi e apparati del corpo umano non possano rimanere sempre uguali e sempre in efficienza con il passare degli anni.

Una risposta più circostanziata e più approfondita potrebbe darla ora un gruppo di ricercatori dell’Istituto di biologia molecolare (IMB) di Mainz, in Germania, e illustrato sulle pagine della rivista “Genes & Development”. Studiando il verme Caenorhabditis elegans, uno dei modelli animali più usati in biologia, gli studiosi, guidati da Holger Richly, hanno dimostrato che a promuovere lo stato di salute nei giovani vermi, ma anche il loro invecchiamento, sono alcuni geni coinvolti nell'autofagia, l'insieme dei meccanismi che consentono il ricambio dei componenti del citoplasma cellulare e la rimozione degli organelli non più funzionali o danneggiati. L'autofagia è cruciale per il corretto svolgimento di un intero ciclo di vita cellulare, quindi è uno dei processi più critici per la sopravvivenza delle cellule.

Un piccolo verme ci spiega perché invecchiamo
 Microfotografia di C. elegans. (Credit: Science Photo Library/AGF)
Il risultato è rilevante innanzitutto perché mette un punto fermo in un annoso dibattito tra gli evoluzionisti. Secondo la teoria darwiniana dell’evoluzione, la selezione naturale opera in favore dei tratti di un individuo che conferiscono un miglior adattamento all’ambiente, e quindi una maggiore probabilità di sopravvivenza fino all’età riproduttiva. In definitiva, il risultato è la propagazione dei geni che sono alla base di questi tratti nella progenie. Quanto più un tratto è utile nel promuovere il successo riproduttivo, tanto più è forte la selezione a favore di quel tratto.

Ora,
in teoria il meccanismo della selezione naturale dovrebbe favorire anche tratti che ritardano l’invecchiamento, e i geni relativi dovrebbero propagarsi in modo pressoché continuo alle generazioni successive. Invece, con tutta evidenza questo non avviene.

La questione è stata sollevata fin dal XIX secolo, ma solo nel 1953, grazie all’opera del biologo statunitense George C. Williams, che formulò l’ipotesi dalla pleiotropia antagonistica. In sostanza, secondo questa ipotesi ci possono essere geni che hanno più di un effetto sulla vita di un individuo. E se un gene favorisce la riproduzione ma è negativo per l’età post-riproduttiva, per esempio diminuisce la longevità, si propagherà senza problemi. In altre parole, all’evoluzione non importa nulla di ciò che succede nella maturità e nella vecchiaia di un essere vivente. Dopo miliardi di anni di evoluzione, il risultato è che i processi d’invecchiamento hanno messo profonde radici nel nostro DNA.

La teoria della pleiotropia antagonistica è stata verificata con modelli matematici e le sue conseguenze sono ben documentate nel mondo reale. L’unica cosa che mancava finora era una prova dell’esistenza di questo tipo di geni.

Questa prova mancante è stata ora fornita dall’autofagia. Richly e colleghi sono partiti dalla constatazione che in C. elegans, l’autofagia rallenta con l’età fino a deteriorarsi completamente nella vecchiaia. Grazie al loro studio, non solo hanno individuato i geni coinvolti nell’autofagia, ma hanno dimostrato anche che silenziandoli si ottiene un miglioramento notevole dello stato di salute dei vermi studiati e un incremento della loro sopravvivenza.

In prospettiva, le conseguenze di questo risultato potrebbero essere di grande portata per la salute umana.

“Molte malattie neurodegenerative, tra cui Alzheimer, Parkinson e corea di Huntington sono associate a un cattivo funzionamento dell’autofagia”, ha spiegato Jonathan Byrne, coautore dello studio. “È quindi possibile che questi geni per l’autofagia possano essere un buon modo per preservare l’integrità neuronale in questi casi”.