La Lav e la preferenza sul veganesimo per lo stage

La Lega Antivivisezione seleziona candidati preferibilmente vegani. Approccio discutible (un po' come lo fu il caso Carpisa: lo stage a chi aveva comprato un loro prodotto) o coerente?

Com’è successo che gli stage, i tirocini, il praticantato si siano trasformati in miserevoli strumenti di marketing? Il precariato, certo. La fine dei contratti garantiti. La nomadizzazione del lavoro. Una certa tradizione italica per cui all’inizio del tuo percorso, quale che sia la preparazione, devi soffrire e possibilmente umiliarti, sfiorando (e spesso superando) il nonnismo nei confronti di chi scalda la sedia sghignazzando. Tutto (purtroppo) vero. Ma la messa in palio di un mese di stage acquistando una borsa – com’è accaduto pochi giorni fa con Carpisa – o la preferenza del veganesimo per aggiudicarsene uno nell’ufficio relazioni istituzionali della Lega Anti Vivisezione viaggiano oltre quegli steccati. Fanno di un momento che potrebbe essere fondamentale per un giovane alla prima esperienza una via di mezzo fra un quiz online e uno sketch grottesco. Un percorso in cui l’umiliazione inizia a ben vedere già dalle modalità di reclutamento.

Ovviamente, rimanendo agli ultimi due casi, si tratta di situazioni diverse. Se da Carpisa si sono scusati per la campagna in cui offrivano un mese di stage nell’area comunicazione pescando fra chi avrebbe comprato un loro prodotto, riconoscendo “la superficialità con la quale è stato affrontato un tema così delicato come quello del lavoro”, dalla Lav italiana hanno invece ribadito la (loro, certo non la nostra) coerenza di quel parametro preferenziale per inserire uno stagista. “Non vedo proprio nessuna discriminazione o offesa ai diritti dei lavoratori – ha spiegato il presidente Gianluca Felicettipiuttosto il nostro annuncio rispetta in pieno la nostra filosofia del rispetto globale dei diritti degli animali”. Insomma, a parità di condizioni per quell’esperienza nell’ufficio relazioni istituzionali, chi non mangia o veste prodotti di derivazione animale passa avanti perché i dipendenti (ma lo stagista non è un dipendente, o lo è?) che “devono parlare con le istituzioni, devono convincere che è la scelta alimentare più giusta, equa ed ecosostenibile” e quindi “lo devono essere. Ne siamo tutti convinti”.

Dunque se non si trasforma in ridicolo strumento di marketing lo stage è un po’ biglietto da visita, infiocchettamento delle filosofie aziendali o, in questo caso, associazionistiche. Col risultato che il vicino di scrivania mangia pane e prosciutto e lo stagista, che magari vegano non è ma ha a cuore la sorte degli animali e vanta tutti i requisiti per ambire a quel “posto”, sta zitto e si piega sul suo tofu. Scherzi a parte, immagino che di prosciutto alla Lav se ne veda poco ma il senso è quello.

Comunque la si metta, e lasciando da parte le legittime convinzioni, la lettura di quella fase – almeno in Italia – è imbarazzante. E non riguarda solo gli stage. Basti chiedere ai praticanti, per esempio degli studi legali: la retribuzione, nonostante le riforme forensi degli ultimi anni, rimane a scelta del dominus (questa la formula con cui i giovani chiamano il responsabile dello studi, immaginate le pene del settore). L’obbligo – e ci mancherebbe – è solo per il rimborso spese. Per non parlare delle drammatiche esperienze raccolte con l’ormai pluricondannata Garanzia Giovani, il programma voluto dai governi Monti e Letta che non ci ha tirato fuori dalle secche del primato dei neet, i 2,2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, offrendo d’altronde perlopiù tirocini a basso costo. Costringendo per giunta migliaia di ragazzi ad aspettare mesi per vedersi accreditare il contributo in un rimpallo fra regioni, Poste e aziende. Nessuna inversione di tendenza, se non un magrissimo -7,9%, e un fallimento certificato anche dalla Corte dei conti europea.

Insomma, è evidente che l’intera considerazione del calcio d’inizio nel mondo del lavoro – la fase che, molto spesso, decide delle sorti lavorative future – è molto bassa. Quasi pittoresca. Eppure la mole di giovani che viene coinvolta da questa ragnatela di lavori camuffati da esperienza è enorme: uno studio firmato da Rossana Cillo dell’università Ca’ Foscari racconta per esempio un dato roboante. Solo considerando quattro categorie di stagisti – i giovani che svolgono stage extracurricolari e gli studenti universitari, delle scuole secondarie superiori e dei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale che svolgono stage curricolari – “nel 2015 siamo arrivati a quota 948.145.Quasi un milione di stagisti”. Un numero nel quale non sono ovviamente inclusi i praticanti delle varie professioni, spesso peggio trattati dei più giovani colleghi in alternanza scuola-lavoro. Una repubblica fondata sullo stage. Se possibile, offerto al peggio delle condizioni disponibili.