Se cerchi gli alieni, guarda i coralli

Secondo una nuova ricerca le forme di vita extraterrestri potrebbero vivere anche sui pianeti che orbitano intorno a stelle turbolente, usando un trucco molto terrestre

Una rappresentazione artistica di Proxima Centauri vista dalla superficie del pianeta Proxima Centauri b (ESO/M. Kornmesser)
Una rappresentazione artistica di Proxima Centauri vista dalla superficie del pianeta Proxima Centauri b (ESO/M. Kornmesser)

Lisa Kaltenegger e Jack O’Malley-James sono due astronomi presso il Carl Sagan Institute della Cornell University (Stati Uniti). Vorrebbero scoprire presto forme di vita aliene e sono convinti che il modo migliore per farlo sia partire dai coralli, qui sulla Terra. In una loro ricerca, da poco pubblicata sulla rivista scientifica Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, spiegano che la capacità delle barriere coralline di resistere alle radiazioni ultraviolette potrebbe offrire indizi su come ipotetiche forme di vita si siano sviluppate su pianeti diversi dal nostro, in orbita intorno a stelle un po’ diverse dal nostro Sole. Confusi? Per capirci qualcosa di più, dobbiamo fare un piccolo viaggio di circa 40mila miliardi di chilometri (4,2 anni luce).

Dopo il Sole, Proxima Centauri è la stella più vicina a noi ed è facilmente osservabile con i telescopi dall’emisfero australe, nella costellazione del Centauro. Nonostante la relativa vicinanza in termini astronomici, la luce di Proxima Centauri impiega 4,2 anni per raggiungere la Terra: questo significa che la luce che ha emesso al momento della pubblicazione di questo articolo arriverà a noi solo nel novembre del 2023, e che quella che vediamo ora fu emessa nel giugno del 2015.

A differenza del nostro Sole – una nana gialla (di tipo spettrale G2 V) – Proxima Centauri è una nana rossa (di classe spettrale M5 Ve): è più piccola, meno luminosa e più fredda della nostra stella. Ha anche un’altra caratteristica, comune alle stelle di questo tipo: produce di frequente brillamenti di radiazioni ultraviolette piuttosto intensi, dai quali è consigliabile tenersi a debita distanza.

Proxima Centauri (Two Micron All Sky Survey at IPAC)

Secondo diversi ricercatori, questi fenomeni hanno la capacità di compromettere l’atmosfera dei pianeti nelle vicinanze, di farne evaporare gli oceani e in un certo senso di sterilizzarli, rendendo remota la possibilità che vi si possano sviluppare forme di vita per come le conosciamo. In alcune circostanze, invece, questi brillamenti potrebbero contribuire a innescare i meccanismi che portano alla vita, almeno secondo le ipotesi di alcuni ricercatori.

Dalle osservazioni svolte finora, Proxima Centauri ha uno, forse due, pianeti che le orbitano intorno. Uno di questi è Proxima Centauri b (i nomi dei pianeti derivano sempre da quelli delle loro stelle per praticità, ma presto qualcosa potrebbe cambiare) e ha dimensioni paragonabili a quelle della Terra, forse è persino roccioso come il nostro pianeta. Si trova nella cosiddetta “zona abitabile”, cioè a una distanza tale dalla sua stella da consentire la presenza di acqua sulla sua superficie. E di solito dove c’è acqua ci sono maggiori probabilità di trovare la vita, radiazioni ultraviolette emesse da Proxima Centauri permettendo.

Nel loro studio, Kaltenegger e O’Malley-James hanno provato a capire entro quali limiti gli esseri viventi riescano a sopravvivere a cospicue dosi di radiazioni ultraviolette. Hanno trovato la risposta più promettente negli oceani, studiando le barriere coralline che sfruttano il principio della bioluminescenza, diventando brillanti nell’oscurità.


I coralli che si trovano poco sotto la superficie dell’acqua devono fare i conti con l’esposizione alla luce solare per molte ore del giorno. Sono bombardati dalla radiazione solare, che contiene anche i raggi ultravioletti, e per resistere hanno sviluppato sostanze fluorescenti (pigmenti) che assorbono la luce ultravioletta e la trasformano, restituendola poi come normale e innocua luce visibile. In questo modo non solo i coralli proteggono se stessi, ma anche altri organismi che decidono di vivere tra le loro porosità, trovando riparo dagli effetti dannosi dei raggi solari.

Secondo Kaltenegger e O’Malley-James, eventuali forme di vita extraterrestri avrebbero potuto sviluppare la bioluminescenza per proteggersi dalle stelle che illuminano i pianeti su cui vivono, risolvendo il problema delle radiazioni dannose. Kaltnegger ne è piuttosto convinta, come ha spiegato di recente all’Atlantic: “Se tu e io ci fossimo evoluti su mondi di quel tipo, probabilmente brilleremmo”.

Negli ultimi venti anni sono state scoperte migliaia di nuovi pianeti, attraverso la loro osservazione indiretta. In pratica, si osserva una stella, si valuta come cambia la sua luminosità nel corso del tempo e con quale periodicità, concludendo se a farla cambiare sia un pianeta che ci passa davanti, riducendone temporaneamente la luminosità visibile dalla Terra. Le stelle come Proxima Centauri sono tra le migliori per compiere queste analisi e hanno rivelato la presenza di numerosi pianeti rocciosi in zone abitabili.

Il problema è che spesso queste zone abitabili sono più ristrette rispetto a quella intorno al Sole in cui per un caso molto fortuito orbita la Terra. Questo è dovuto al fatto che le stelle come Proxima Centauri sono più fredde del Sole, e quindi i pianeti devono essere più vicini per potersi scaldare a sufficienza. Una maggiore vicinanza implica una maggiore esposizione agli ultravioletti e alle altre emissioni di radiazioni da parte della stella.

Inoltre, una stretta vicinanza tra un pianeta e la sua stella di riferimento rende più probabile la presenza di una rotazione sincrona, come avviene per esempio con la Luna rispetto alla Terra (ci mostra sempre la stessa faccia). Un pianeta in questa condizione avrebbe la faccia esposta alla stella molto calda, mentre l’altra faccia gelata. La presenza di un’atmosfera potrebbe mitigare l’effetto, ma solo se questa riuscisse a resistere alle condizioni già complicate in cui si trova il pianeta.

Gli attuali telescopi non consentono di osservare direttamente i pianeti al di fuori del nostro Sistema solare (esopianeti), e questo incide non poco sul lavoro di ricerca sulle eventuali forme di vita bioluminescenti. Telescopi più potenti saranno messi in servizio entro pochi anni, ma non avranno comunque una definizione sufficiente per rilevare la bioluminescenza, salvo non sia enormemente diffusa su buona parte della superficie del pianeta. Kaltenegger non esclude la possibilità che da qualche parte ci sia un pianeta con un’atmosfera che abbia permesso la formazione di oceani d’acqua, nei quali si siano evolute forme di vita fluorescenti che, messe insieme, potrebbero essere rilevate da telescopi di futura generazione.

La scoperta della vita fuori dal nostro sistema solare nei prossimi decenni passerà esclusivamente dalle osservazioni con i telescopi, a causa delle enormi distanze impossibili da coprire in tempi ragionevoli con gli attuali sistemi di trasporto di sonde e robot automatici. Un giorno un pianeta stranamente più luminoso degli altri, osservato al telescopio, potrebbe offrirci una risposta a una domanda che ci facciamo da sempre.