MILANO. Il suo Bosco Verticale, uno dei simboli iconici di Milano, è stato considerato nel 2015 il grattacielo più bello e innovativo al mondo. Stefano Boeri, archistar pluripremiata, cinque anni dopo, causa coronavirus, ha imposto lo smart working prima nello studio aperto da anni a Shanghai e adesso pure alla Stefano Boeri Architetti qui a Milano. Come se non bastasse, come tanti, ha comperato una mascherina: «Non la tengo sempre indosso ma preferisco averla in tasca. La uso nei luoghi più affollati, come forma di rispetto verso gli altri. So che serve al 70%, ma va bene anche quello».

Stefano Boeri, Milano ai tempi del virus. Secondo il New York Times eravamo «the place to be». La pagheremo, anche in termini economici?
«Senz’altro in termini economici. Ma non in reputazione. Siamo di fronte a una causa di forza maggiore. Non c’entra con le scelte fatte da Milano per diventare quella che è oggi. Sono convinto che quando ne usciremo avremo una ripresa molto forte. Questa è una città con una grande energia. Ha saputo dimostrarlo in questi anni. E poi a momenti di improvviso collasso, ce lo insegna la storia, seguono momenti di grande energia generatrice».

Lei ha iniziato a misurarsi con il Coronavirus prima di tanti, passando allo smart working nel suo studio di Shanghai e ora in quello di Milano.
«A Shanghai ci sono i primi segnali positivi. Si sono fermati i contagi. Lo studio lo riapriamo normalmente lunedì prossimo. Ma da questa esperienza di smart working abbiamo imparato molto. Innanzitutto ci vuole una disciplina molto forte. Non puoi lavorare da letto o quando vuoi. Anche a casa devi trovare un angolo dedicato solo al lavoro senza altre distrazioni. Poi devi tenere tempi e ritmi di conversazione. Sai che stai perdendo una serie di comunicazioni implicite, gesti e viso soprattutto. La parola è fondamentale».

Milano deserta, Milano senza i ritmi della sera. Non fa un po’ tristezza?
«Gli elementi depressivi sono già tanti. Cerco di vedere in modo positivo. Anche se vorrei sottolineare che questa è già una città dove si è soli, non a caso abbondano i single. Il Covid-19 è un virus selettivo e crudele, che colpisce i più deboli, gli anziani o i già malati. Che una città delle eccellenze come Milano debba fare per forza i conti con le fasce più deboli dei suoi abitanti mi sembra un aspetto molto bello».

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Però c’è l’altro lato della medaglia. Gli assalti al supermercato, le mascherine a prezzi da mercato nero, la città che si chiude in casa.
«Io ho un campione quotidiano. In Triennale siamo in 60 più 20 collaboratori, 70 in studio, con i miei allievi al Politecnico arriviamo a 200 persone. Certo siamo costretti allo smart working, ma tutto sommato mi sembra che prevalga il buon senso. L’ironia dei social contro certi comportamenti mi sembra che abbia ampiamente compensato l’idiozia di chi si riempie senza motivo il carrello del supermercato».

Le sembra che siano state adottate misure troppo drastiche?
«Meglio esagerare nelle cautele, piuttosto che fare inutili compromessi. Non c’era altro che si potesse fare».

Stadi chiusi, teatri chiusi come i cinema, eventi che saltano. Rinviato il Salone degli Occhiali che è il più importante del mondo, poi la gran discussione sul Salone del Mobile.
«Certo c’era il problema del più grande evento di Milano, il Salone del Mobile. Non sarebbe stata solo una sventura perdere il salone. Meglio spostarlo più in là di qualche mese. Ma non dobbiamo pensare solo alle sventure che ci sono capitate. Dobbiamo guardare alle opportunità che ci vengono offerte. Ci dobbiamo misurare con gesti straordinari. Milano è anche la città dove abita la solidarietà».

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Intanto all’estero c’è chi non vuole più gli italiani, figuriamoci i lombardi o i veneti. Viaggiatori respinti alle Mauritius, frontiere chiuse, quarantene.
«Ho un amico che gestisce un’azienda americana. L’ho visto pochi giorni fa qui a Milano. Quando è tornato negli Stati Uniti lo hanno obbligato a 14 giorni di quarantena. Sono solo reazioni isteriche. Passeranno anche quelle».

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