La rapina di via Osoppo, 60 anni fa

Storia della «più sensazionale rapina che la cronaca milanese abbia mai registrato», senza sparare un colpo, ma facendo a voce "TA TA TA TA"

di Gabriele Gargantini

@ArchiviFarabola
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Sessant’anni fa, la mattina del 27 febbraio 1958, ci fu una rapina nella zona ovest di Milano, in via Osoppo. Senza sparare un colpo, alcuni uomini assaltarono un furgone portavalori che trasportava più di 500 milioni di lire e scapparono. Al tempo lo stipendio mensile di un operaio era di 50mila lire. Un salumiere disse al Corriere della Sera: «La scena si è svolta con una tale rapidità che la gente è rimasta più stupita che terrorizzata: molto, ma molto più in fretta di quelle rapine che si vedono al cinema». Sempre il Corriere scrisse: «La più sensazionale rapina che la cronaca milanese abbia mai registrato è stata compiuta nella nostra città alle 9.23 di ieri. In via Osoppo, a Porta Magenta. Una banda di “gangsters” con un organico complessivo che viene valutato a non meno di una decina di persone, ha assalito l’autofurgone blindato della Banca Popolare di Milano».

In realtà nella banda c’erano sette persone, e non erano “gangsters”. Erano uomini, quasi tutti di trent’anni o poco più, che fino al giorno prima si erano arrangiati tra truffe, furti, rapine e affari loschi di vario tipo. Erano una piccola parte di quella che è ed era nota come ligera: la malavita di Milano degli anni dopo la guerra. Non si sa da dove arrivi la parola: forse è un riferimento alla leggerezza delle tasche (perché quasi vuote) di rapinati e rapinanti, forse alla leggerezza degli atti, che erano quasi sempre fatti senza armi e senza sangue. La ligera aveva anche il suo gergo: polenta, per esempio, voleva dire oro; i dadi, quelli usati nelle bische, erano detti “borlótt”.

Controlli di polizia in piazza Duomo, 1957 (Archivio Giancolombo)

I banditi della ligera arrivavano soprattutto dal Giambellino, dall’Isola, da Lambrate e da Ticinese; da luoghi che erano definiti «coacervi di rovine bombardate, bottiglierie frequentate da malfattori e case d’appuntamenti d’infimo livello ove è bene non recarsi dopo il tramonto». La ligera era fatta di tanti piccoli gruppi separati e non molto organizzati. In molti casi ne facevano parte ex partigiani che, finita la guerra, non avevano potuto o voluto reinserirsi in altro modo nella società. Spesso i ligerini erano ben visti da almeno una parte degli abitanti di Milano, anche perché capitava che qualche malvivente della ligera aiutasse o proteggesse gli abitanti del suo quartiere. Della ligera parlano anche le canzoni note come le canzoni della mala: Ma mi…, scritta da Giorgio Strehler e cantata da Ornella Vanoni, racconta con evidente empatia la storia di un ligerino che è stato preso e che, pur di non fare i nomi dei complici, preferisce passare quaranta giorni e quaranta notti a farsi picchiare a San Vittore, il carcere di Milano.

Negli anni Cinquanta alcuni banditi della ligera avevano iniziato a prendersi sempre più libertà: uno di loro girava con l’auto targata 777 (il numero della questura), altri comparivano sorridenti e ottimamente vestiti nelle foto dei loro arresti.

Ezio Barbieri in tribunale nel 1949 (Archivi Farabola)

Tra i sette della rapina di via Osoppo c’era un po’ di tutto. Quello che aveva fatto in tempo a fare più cose era stato Ugo Ciappina: aveva 30 anni e aveva fatto parte della “Banda Dovunque”, chiamata così perché faceva rapine dappertutto. Era stato un partigiano comunista, nei GAP, e nel 1945 fu preso e portato a San Vittore dalle SS, ma non confessò nulla. A San Vittore ci tornò a fine anni Quaranta, quando furono arrestati i membri della Banda Dovunque, che si erano travestiti da carabinieri ed erano andati in una banca dicendo di dover fare un controllo.

Gli altri della rapina di via Osoppo erano Luciano De Maria, Arnaldo Gesmundo (che alcuni chiamavano anche “Jess il bandito”), Ferdinando Russo (che tutti chiamavano “Nando il terrone”), Arnaldo Bolognini (anche lui ex partigiano), Eros Castiglioni (che aveva fatto il pugile e si dice facesse una vita molto vivace) ed Enzo Cesaroni, che di lavoro faceva il droghiere. Alcuni avevano famiglia e figli e quasi tutti erano già stati in carcere. Russo aveva 45 anni ed era il più vecchio: anche suo figlio maggiore, che aveva 20 anni, aveva già fatto in tempo a finire in carcere.

Pare che l’idea di rapinare un furgone portavalori, cosa che in Italia ancora non aveva fatto nessuno, fosse venuta a Ciappina a fine anni Quaranta, poco prima di finire in carcere. E che in carcere ne parlò con De Maria. Una volta usciti Ciappina e De Maria misero in piedi la banda. Presero anche un po’ di ispirazione dalla Francia, dove la “banda dei marsigliesi” aveva rapinato un furgone portavalori del Crédit Lyonnais, e dal cinema: nel 1955 era uscito La rapina del secolo, sulla vera storia di una rapina di cinque anni prima a Boston.

I sette uomini studiarono orario e percorso di un furgone portavalori della Banca Popolare di Milano che tre volte a settimana partiva dal centro e portava in periferia soldi e assegni. Decisero che l’avrebbero intercettato all’incrocio tra via Osoppo e via Caccialepori perché era spazioso e con diverse vie di fuga. Avrebbero bloccato il furgone usando un’auto e un camion e poi sarebbero scappati con un’altra auto ancora. Il primo tentativo lo fecero il 27 gennaio ma videro due volanti della polizia e, spaventati, cambiarono idea. Un secondo tentativo andò male perché Russo, che doveva avvistare il portavalori e dare il segnale agli altri, confuse un furgone del latte con il portavalori e diede il segnale al momento sbagliato. Il 27 febbraio fu la volta buona. Scelsero il 27 perché era il giorno noto come “san pagaino”, in cui si ritiravano le buste paga e i portavalori avevano quindi molti soldi da portare in giro.

Non che fosse particolarmente necessario, ma prima della rapina i sette decisero di vestirsi con delle tute blu da operai. Il piano era semplice, quasi banale: Russo doveva avvistare il furgone e fare un cenno a Gesmundo che, guidando una Fiat 1400, doveva mettersi davanti al portavalori e farlo rallentare. A quel punto un camion OM Leoncino doveva tamponare il furgone e bloccarlo. Lì dovevano entrare in gioco gli altri, per immobilizzare le tre persone sul portavalori: l’autista, il commesso della banca e l’agente di sicurezza, che era armato. Poco prima della rapina Ciappina era andato con la moglie da un dentista lì vicino, per crearsi un alibi; Bolognini invece era andato a prendere pane e taleggio, perché aveva fame.

Il furgone portavalori arrivò poco dopo le 9. La Fiat 1400 però finì contro un muro. Vedendo un’auto schiantarsi contro un muro, l’autista del portavalori comunque rallentò. A quel punto l’OM Leoncino guidato da Bolognini speronò il furgone, impedendogli di muoversi. I banditi ruppero un vetro del portavalori con un martello e fecero scendere l’autista, il commesso e la guardia: uno di loro li tenne fermi minacciandoli con un’arma. Gli altri banditi – tutti con passamontagna in testa – presero intanto una decina di cassette dal furgone portavalori e le caricarono su un altro loro furgone. Senza che ce ne fosse alcun bisogno, durante la rapina uno dei banditi fece il suono di un fucile che spara: «TA TA TA TA TA TA».

Le persone presenti in via Osoppo non fecero granché, anche perché la rapina durò giusto un paio di minuti. Una signora buttò dei vasi di fiori contro i banditi, mancandoli. Un’altra disse ai banditi “andate a lavorare”, cosa a cui De Maria rispose: «E secondo lei cosa stiamo facendo?».

Un paio di banditi scappò col furgone su cui c’erano i soldi e gli assegni; gli altri su un’Alfa Romeo, una Giulietta Sprint rubata a Bergamo pochi giorni prima. Ciappina tornò dal dentista: se ne era andato dicendo che doveva uscire a prendere il giornale ed era stato via qualche decina di minuti. Uno dei banditi si tolse la tuta blu da operaio e il passamontagna e restò lì ad aspettare la polizia. È stato scritto che al commissario che lo riconobbe, sapendolo un ligerino, disse qualcosa di questo tipo: «Secondo lei, se avessi appena fatto una rapina, sarei così stupido da restare qui?».

I rapinatori buttarono le tute blu nel fiume Olona, abbandonarono la Giulietta e tutti gli assegni inesigibili e portarono il furgone, con dentro solo contanti e titoli al portatore, in un garage che avevano comprato qualche giorno prima. Tolti i circa 500 milioni di titoli e assegni che i banditi non avevano tenuto, restavano circa 115 milioni in banconote da 5 e 10mila lire. Tolte le spese comuni, se li divisero: 15 milioni a testa. I rapinatori dissero quello che probabilmente si dicono tutti i rapinatori dopo una rapina, e che di certo si dicono i rapinatori nei film: di non dare troppo nell’occhio con i soldi. Due di loro, Gesmundo e De Maria, andarono a Cortina a fare la bella vita dicendo di essere ricchi industriali.

Il 28 febbraio il Corriere della Sera uscì con un articolo a sette colonne sulla rapina. Lo scrisse Franco Di Bella, che allora si occupava di cronaca nera e anni dopo ne sarebbe diventato direttore. Di Bella scrisse anche che la mattina del 27 un uomo con tuta blu aveva comprato in via Osoppo del pane e un etto di taleggio. L’articolo finiva così: «Che la sorte dei più geniali e pericolosi gangster del dopoguerra ambrosiano stia per essere decisa da un etto di formaggio?».

Il ministro dell’Interno Fernando Tambroni mandò a Milano l’ispettore Vincenzo Agnesina, che si occupò delle indagini con il questore Fortunato Lo Castro, il capo della Squadra Mobile Paolo Zamparelli e il commissario Mario Nardone, che qualcuno chiamava “il Maigret italiano” da quando, alcuni anni prima, aveva risolto il complicato e molto discusso caso che riguardava Rina Fort, “la belva di via San Gregorio”. I giornali del tempo scrissero che delle indagini si occuparono più di cinquemila poliziotti. Alcuni anni più tardi, Di Bella scrisse: «Dal pomeriggio del 27 febbraio 1958 alla Questura di Milano non si dormì, non si mangiò, non si fece altro che impazzire. Le farmacie dei dintorni fornirono a funzionari e agenti migliaia di compresse contro l’emicrania, e decine di tubetti di simpamina o di tranquillanti, a seconda delle ore».

Il 2 marzo il Corriere pubblicò il “ritratto parlato”: cioè un identikit (un ritratto fatto mentre qualcuno parla) dell’uomo “dei panini al formaggio”, che secondo il negoziante che glieli aveva venduti era “piuttosto bello” e somigliante all’attore Anthony Perkins. Di Bella scrisse che in questura furono interrogate più di 500 persone.

Il ritratto parlato non portò al riconoscimento di Bolognini. Il 6 marzo le tute blu usate durante la rapina furono ritrovate perché il tratto di fiume Olona in cui erano state buttate era stato prosciugato per far deviare il corso d’acqua. La polizia lesse che le aveva prodotte una ditta di Modena e scoprì che qualcuno le aveva rubate proprio da quella ditta. Interrogò quel qualcuno e si fece dire a chi le aveva vendute. L’1 aprile cinque dei sette furono arrestati.

Di Bella scrisse che i banditi avevano speso parte dei soldi «all’insegna delle tre D: donne, dadi, danze». Ma qualche decina di milioni di lire fu trovata: murata dietro il lavandino della cucina di Bolognini e sotto lo zerbino del palazzo in cui gli ignari genitori di Gesmundo facevano i portinai. Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera:

Ufficialmente sì, tutti scrivono e proclamano che sono contenti, anzi entusiasti del fatto che i criminali siano stati smascherati in modo da togliere a chiunque la voglia di imitarli. Ma, sotto sotto, senza osare dirlo o dicendolo a bassa voce, la maggioranza tifava per i rapinatori. Quello scontro, calcolato alla frazione di secondo, fra il portavalori e il camion, per distrarre l’attenzione dei passanti, e quell’assalto al furgone, rapido ed esatto da sembrare radiocomandato, aveva mandato in visibilio gli italiani. […] I rapinatori di via Osoppo ci avevano dato l’illusione che l’Italia stesse uscendo da questo stadio arcaico. Nel campo del delitto, d’accordo. Ma cosa conta da dove si comincia? L’importante è cominciare, pensava la gente. Da cosa nasce cosa.

Come ha spiegato Stefano Galli – che ha curato la mostra “Milano e la mala” e ora ne sta organizzando una su Milano e il cinema – la maggior parte delle persone stava dalla parte dei banditi e anche il termine “gangsters” era usato per esterofilia, non per fare un parallelismo con i modi dei gangster americani. Galli ha ricordato che il giornale La notte titolò “L’accademia della rapina” per parlare dei fatti di via Osoppo e che quando i cinque banditi furono arrestati «la città era costernata, perché tutti parteggiavano per loro».

Intanto Cesaroni aveva fatto in tempo a scappare in Venezuela, ma lo trovarono qualche mese dopo. Castiglioni, da latitante, scrisse una lunga lettera pubblicata da Epoca, la rivista diretta da Enzo Biagi. Raccontò di essere scappato in Francia travestito da prete. Lo arrestarono nel 1960 a Parigi, dopo averlo fermato per caso in un controllo, per una vicenda con cui non aveva niente a che fare.

La sentenza del primo processo per Ciappina, Russo, De Maria, Bolognini e Gesmundo arrivò nel novembre 1958, all’una e mezzo di notte. Le tv, che di solito non trasmettevano niente dopo le 22, fecero un’eccezione per dare la notizia delle condanne. Alla fine, considerando anche altre rapine di cui erano stati accusati, i sette si presero condanne che andavano dai nove anni e otto mesi di Russo ai vent’anni e otto mesi di De Maria. Nel processo litigarono su chi fosse il capo della banda e – pare – anche su chi avesse fatto il suono “TA TA TA TA TA”. Nel 1964 le condanne furono confermate in Cassazione.

Nel frattempo nel 1960 era uscito nei cinema L’audace colpo dei soliti ignoti, che parlava di un fallito assalto a un furgone che trasporta soldi del Totocalcio, organizzato con un finto incidente d’auto.

La ligera cambiò e a Milano arrivarono criminali più violenti e pericolosi, come Francis Turatello, Angelo Epaminonda e Renato Vallanzasca. Col tempo tutti i rapinatori uscirono dal carcere e quasi tutti si dedicarono a una vita più tranquilla.

Cesaroni, Castiglioni e Russo sono morti. De Maria, morto nel 2010, scrisse il libro Vita di un bandito. In un’intervista del 2007 si vantò per l’auto sportiva che aveva in garage e per alcune sue altre rapine “ormai in prescrizione”. La sua parte di refurtiva non fu mai trovata e al giornalista che gli chiese di parlarne rispose: «Il bottino della rapina? Molti lo sospettano, ma perché la polizia non ha mai trovato i miei soldi. In realtà nemmeno io, uscito dal carcere, li ho trovati».

Ciappina fu arrestato ancora nel 2002, quando a 74 anni stava per fare un’altra rapina. Si è sempre rifiutato di parlare della rapina di via Osoppo. L’attaccante Paolo Ferrario, che giocò nel Milan negli anni Sessanta, era bravo nei gol “di rapina” (fatti rubando il tempo agli avversari, per istinto più che per talento) e fu soprannominato “Ciapina”.

Gesmundo ha scritto il libro Il ragazzo di via Padova e qualche anno fa spiegò che lui, che era alla guida della Fiat 1400, non avrebbe dovuto farla schiantare contro un muro.

L’auto era rubata. Avevo tenuto i fili del motore dell’automobile allacciati per non perdere tempo. Quando scesi, partì da sola, ma fu efficace perché l’incidente sorprese ancora di più tutti, passanti e agenti del furgoncino portavalori.

Riguardo alle tute blu, disse:

Fu un’idea mia e di Ciappina. Avevamo letto qualcosa sui libri. La banda che aveva formato Stalin prima di salire al potere si travestiva da guardie zariste. Noi scegliemmo le tute blu. Avremmo dato meno nell’occhio. In più era un modo efficace di apparire tutti uguali, tutti saremmo stati la stessa persona.

Su YouTube c’è un video di quando nel 2011 Gesmundo andò in una piccola libreria vicino a via Osoppo per parlare del libro di De Maria. Poi, con una decina di persone, si spostò verso il luogo della rapina. Mentre parlava un’anziana signora gli si avvicinò e gli disse che nel 1958 lei abitava lì vicino. Gesmundo e la signora parlarono un po’ ma lei, che non aveva capito chi lui fosse, chiese: «Ma lei chi è?». Uno dei presenti disse: «Lui è uno dei rapinatori». La signora sorrise e gli diede la mano.