Tim, chi pagherà i 75 miliardi rubati dal libero mercato

15 Aprile 2018

La politica non riesce a fare il governo ma è impegnatissima nell’ennesima stucchevole discussione a vuoto sul futuro della rete telefonica. Ai cittadini – che pagheranno come al solito un conto salato alle brillanti idee di certi Soloni talvolta interessati – bisognerebbe spiegare la differenza tra il “mondo di sopra” (i finti temi apparentemente in discussione) e il “mondo di sotto”, le verità che nessuno – ministri, politici in genere e opinionisti sponsorizzati – osa pronunciare.

Il mondo di sopra è noto. Il fondo Elliott punta a sottrarre ai francesi di Vivendi il controllo di Telecom Italia (Tim). Il governo spalleggia gli americani ordinando alla Cassa Depositi e Prestiti di spendere 750 milioni del risparmio postale per comprare il 4,26 per cento di Tim e farlo pesare all’assemblea degli azionisti. Elliott (che propone per il vertice Tim alcuni vecchi boiardi a 24 carati) punta, con il governo, a scorporare da Tim la rete telefonica per fonderla con Open Fiber, la nuova rete in fibra ottica finanziata da Enel e Cdp, cioè dallo Stato. Siccome la rete Tim fa schifo e abbiamo una qualità di connessione Internet tra le peggiori d’Europa (ma forse Cipro e Portogallo stanno messi peggio), e siccome gli azionisti di Tim non hanno mai voluto sacrificare i loro dividendi agli investimenti, il governo Renzi pensò di sfidarli investendo miliardi pubblici su una nuova rete in concorrenza. Siccome però l’operazione Open Fiber è economicamente insensata, il governo Gentiloni spende per l’unificazione delle due reti che il governo Renzi aveva speso per averle divise e in concorrenza.

Con spreco di quantità ancora ignote di denaro pubblico. Le vestali del libero mercato gridano allo scandalo, e sul punto abbiamo assistito a una sapida polemica via Twitter tra il ministro Carlo Calenda e il presidente dell’Istituto Bruno Leoni, Franco Debenedetti, che nella nostra economia sfasciata svolge il ruolo di Pontefice della religione liberista.

Il mondo di sotto è quello che né Calenda né Debenedetti osano nominare perché nasconde il contributo concreto della mistica liberista alla rovina del Paese. Dal 2000 al 2017, in 18 anni, Tim ha pagato alle banche interessi per 75 miliardi di euro, cinque volte il suo attuale valore di Borsa. Per scalare Telecom Italia, l’Olivetti di Roberto Colaninno nel 1999 si fece prestare i soldi dalle banche. Poi fuse l’Olivetti e la Telecom, così il colosso telefonico si è trovato a dover pagare per l’eternità decine di miliardi di debiti fatti per scalarlo. In un Paese civile una cosa del genere non sarebbe stata consentita. In Germania e Francia i telefoni sono rimasti statali e pare che funzionino lo stesso.

In Italia, invece, essendo molto moderni, abbiamo applaudito la genialità del “ragioniere di Mantova”, sponsorizzata dall’allora premier Massimo D’Alema. E indovinate da che parte stava Debenedetti? Se allora avessimo avuto un governo degno del nome – anziché quelli guidati da D’Alema, Giuliano Amato e Berlusconi – l’Italia avrebbe una rete telefonica con fili d’oro e velocità di connessione da 300 miliardi di giga al secondo. Invece, in nome del libero mercato, si è permesso che certi “salotti” (le banche in testa, non dimentichiamolo mai) si appropriassero di Tim, della rete e degli immobili, più i 75 miliardi e i dividendi.

Ecco perché la discussione di oggi è inutile. Con la bolletta gli italiani hanno pagato i debiti di altri anziché la qualità della rete. Lo Stato dovrà pagare il conto per forza. Non è statalismo constatare la porcata che è tra le ragioni del declino economico italiano. Quindi lo Stato (noi) pagherà di nuovo. A meno che la mistica liberista dell’Istituto Bruno Leoni non conosca la tecnica per rimettere il dentifricio nel tubetto.

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