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IL MONDO OGGI

Riassunto geopolitico della giornata, con analisi e link per approfondire e ricostruire il contesto.

Il mondo questa settimana, da Battisti al Brexit senza uscita

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni.
a cura di Niccolò Locatelli
Pubblicato il Aggiornato alle
Carta di Laura Canali.
Carta di Laura Canali. 

Colonna sonora consigliata per questo articolo: Billy Bragg, Full English Brexit


BREXIT SENZA USCITA

Lo psicodramma Brexit ha vissuto questa settimana un paio di atti ulteriori: il rigetto parlamentare con numeri record dell'accordo per l'uscita dall'Ue negoziato dalla premier britannica Theresa May e la sopravvivenza di quest'ultima all'ennesima mozione di sfiducia.

Confermato quanto è noto da tempo: il divorzio da Bruxelles non ha senso geopolitico né economico e rischia di compromettere l'unità del Regno Unito; le condizioni dell'intesa negoziata da una posizione di debolezza con l'Ue sono impegnative al limite dell'inaccettabilità (frontiera con l'Irlanda) per un paese che punta a "riconquistare la sovranità", ma Brexit senza accordo sarebbe ancora peggiore. Nessuno a Westminster ha il coraggio di assumersi queste responsabilità; si confida nella clemenza della Germania e quindi dell'Ue - in effetti qualche apertura da Berlino è arrivata, ma può essere utile solo a prendere tempo.

May presenterà lunedì il suo Piano B, che sarà messo ai voti il 29 gennaio. Se la storia recente è di insegnamento, la prossima decina di giorni sarà meglio spesa cercando di consolidare scenari alternativi, a oggi futuristici più che futuribili: un rinvio dell'uscita, il ritiro dell'art.50, un nuovo referendum.


BATTISTI, BOLIVIA E BOLSONARO

Alcune circostanze hanno permesso l'estradizione del latitante Cesare Battisti dalla Bolivia in Italia.

La più importante è naturalmente la vittoria di Jair Messias Bolsonaro alle elezioni presidenziali dell'ottobre scorso in Brasile; il candidato di origine italiana aveva promesso di restituire il latitante al nostro paese, non solo per compiacere la diaspora tricolore (che ha votato in massa per lui) ma anche per stabilire un'alleanza con il governo di Conte, Di Maio e soprattutto Salvini. L'Italia è citata nel programma di Bolsonaro assieme a Israele e Stati Uniti come esempio di democrazia da non criticare. Il legame tra il nuovo presidente verdeoro e la componente leghista dell'esecutivo italiano, oliato dalla comune conoscenza e consulenza di Steve Bannon, si avvia a essere particolarmente stretto; non è scontato che Battisti sarebbe stato estradato se a Roma non ci fosse stato un governo sovranista a rivendicarne la resa.

La decisiva collaborazione della Bolivia in questa vicenda si spiega con gli importanti contratti energetici tra il paese andino e il Brasile in scadenza quest'anno. Il presidente Evo Morales non può rischiare di perdere il suo principale cliente prima delle elezioni di ottobre, alle quali si candiderà con una mossa di dubbia costituzionalità - ulteriore incentivo a rimanere fuori dai radar e mostrarsi collaborativo con l'Occidente.


LA SETTIMANA DI TRUMP

La quarta settimana di paralisi del governo federale ha permesso di misurare ancora una volta la distanza tra Donald Trump e gli altri poteri degli Stati Uniti.

Prima la notizia dell'inedita apertura da parte dell'Fbi di un'indagine sul presidente per verificare eventuali collusioni tra l'inquilino della Casa Bianca e la Russia; poi le rivelazioni giornalistiche - impensabili se non ci fossero gole profonde ai livelli più alti dell'amministrazione - sui tentativi trumpiani di non divulgare a nessuno il contenuto dei suoi incontri con Vladimir Putin; infine l'insofferenza presidenziale nei confronti della Nato, che ha spinto il Congresso a presentare mozioni bipartisan per impedire che il capo di Stato possa decretare da solo l'uscita degli Usa dall'Alleanza Atlantica. Tutto accompagnato dal consueto stillicidio di indiscrezioni legate all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sull'ingerenza russa nelle elezioni vinte da Trump nel 2016.

L'unico aspetto sul quale il presidente e gli apparati sembrano allineati è quello della guerra (per ora non militare) alla Cina. Le aziende tecnologicamente all'avanguardia come Huawei rimarranno nel mirino anche in caso di accordo commerciale tra
le due potenze. Cui non dovrebbe essere estraneo il dossier nordcoreano.


LA COREA NON È PIÙ NEMICA [di Marco Milani]

Per la prima volta dalla fine del 2010 la Corea del Nord non viene più definita con il termine “nemico” dal ministero della Difesa della Corea del Sud.

La pubblicazione del nuovo Libro Bianco sulla difesa, il primo sotto la presidenza del progressista Moon Jae-in, elimina tale etichetta; il programma missilistico-nucleare di Kim Jong-un viene comunque definito, per non allontanarsi troppo dalla linea degli Usa, come una “minaccia alla pace e alla stabilità della penisola coreana”. Questa mossa si inserisce pienamente nel piano di riconciliazione e cooperazione con P'yongyang che Moon sta portando avanti da quasi un anno. In un certo senso è la logica prosecuzione delle attività di sminamento e di smantellamento delle postazioni militari dalla zona de-militarizzata attorno al villaggio di Panmunjom, gestita in maniera congiunta dalle due Coree nell’autunno scorso. La dichiarazione firmata dai due leader a P'yongyang a settembre, infatti, esprimeva la volontà e la necessità di ridurre il confronto e l’ostilità militare come primo passo verso la riconciliazione e la pacificazione della penisola. La strategia di cooperazione di Moon va però ben oltre gli aspetti militari e abbraccia una molteplicità di questioni: da quelle culturali e umanitarie, sulle quali si sono già raggiunti risultati significativi, a quelle economiche, che invece restano ancora solamente sulla carta.

Da questo punto di vista, infatti, Seoul deve fare i conti con le sanzioni internazionali legate al programma missilistico-nucleare nordcoreano. Moon ha le mani legate dalla relazione fra Washington e P'yongyang che, dopo l’exploit del summit di Singapore del giugno scorso, sembra essere piombata in un prevedibile stallo. L’amministrazione Trump negli ultimi mesi si è contraddistinta per un certo grado di schizofrenia, forse figlia della tattica del poliziotto buono / poliziotto cattivo, nella quale il regime di Kim viene ripetutamente criticato da vari membri dell’amministrazione per gli scarsi progressi nella de-nuclearizzazione, mentre il presidente ostenta sicurezza e rimarca l’ottima rapporto con il leader nordcoreano. Gli incontri di alto livello previsti nei prossimi giorni - Kim Yong Chol con Pompeo e forse Trump a Washington e Choi Son Hui con Stephen Biegun a Stoccolma - in vista di un possibile secondo summit fra Kim e Trump mostreranno quali siano i margini effettivi di compromesso.

Una decina di giorni fa, il leader nordcoreano si è recato in visita da Xi Jinping in Cina per la quarta volta in meno di un anno. L’incontro ha ricordato agli americani che il grande fronte comune internazionale della ‘massima pressione’ attraverso le sanzioni su P'yongyang non è così compatto e che la Cina ha ancora un ruolo cruciale da giocare nella questione - elemento non secondario anche nella guerra commerciale in atto fra Pechino e Washington.

La strategia di riconciliazione e cooperazione promossa da Moon Jae-in sta quindi funzionando e ha portato a risultati concreti nel giro di pochi mesi. Seoul ha riguadagnato il ‘posto di guida’ nelle relazioni inter-coreane che il presidente aveva promesso in campagna elettorale. Ciò nonostante, l'allineamento sudcoreano agli Usa sulla questione del nucleare subordina il raggiungimento degli obiettivi più sostanziosi - come la riapertura del complesso di Kaesong o la riconnessione delle arterie stradali e ferroviarie - agli sviluppi dei negoziati fra Trump e Kim, nei quali Moon può essere un facilitatore ma non un attore protagonista.


SUDAN CONTRO SUDAN [di Rino Tavarelli]

“Prima di tutto bisogna occupare la città, impadronirsi dei punti strategici, rovesciare il governo. Occorre, per questo, organizzare l'insurrezione, formare e addestrare una truppa d’assalto. Non molta gente: le masse non ci servono a nulla; una piccola truppa ci basta”.

I sudanesi che da un mese sfilano nelle strade di Khartoum, Omdurman, Gedaref, Atbara e molte altre città per chiedere la caduta del regime forse non hanno appreso la lezione dal pensiero di Trotzki e ad oggi non hanno saputo rovesciare il trentennale governo di Omar Al Bashir. L’ex generale conosce del resto sicuramente meglio dei manifestanti le tecniche del colpo di Stato: salito al potere con un golpe nel 1989, il presidente - su cui pende un mandato di arresto della Corte dell’Aia - ha fatto quadrato intorno a sé, con due rimpasti di governo negli ultimi dodici mesi e milizie pronte a proteggerlo.

Senza risparmiare la violenza: i morti si contano a dozzine e i detenuti a centinaia. La strage resta di proporzioni inferiori rispetto a quella del 2013 quando le vittime furono oltre 200. Ma questo può anche spiegarsi con la capacità del regime di colpire miratamente esponenti dell’opposizione, giornalisti, persino medici ‘rei’ di soccorrere i feriti, e di avere  un potere di censura notevole sui mezzi di informazione - dalla chiusura dei giornali all’oscuramento di internet.

Non è chiaro dove ‘la rivolta del pane’ trasformatasi in scontro politico frontale possa portare. L’epigono sub-sahariano delle primavere arabe potrebbe esaurirsi per autocombustione, condurre al rovesciamento del tiranno manu militari, oppure a una transizione politica, con il Partito del congresso nazionale al governo capace di proporre un’alternativa a Bashir offrendogli una sicura via di fuga. La vicina Etiopia del primo ministro riformista Abiy potrebbe servire d’ispirazione per una svolta in senso democratico.

Le elezioni del 2020 (alle quali Bashir pensa di ricandidarsi) restano lontane e lo scenario economico con inflazione al 70%, scarsità di generi alimentari, carburante e medicine aggiunge urgenza alla crisi in corso. La rimozione delle sanzioni economiche statunitensi nell’ottobre 2017 non è stata una manna, anzi, ha messo a nudo le colpe di un governo autocratico, inefficace, corrotto.

La troika (Stati Uniti, Gran Bretagna, Norvegia) e l’Unione Europea hanno chiesto al governo sudanese senso di responsabilità e rispetto delle libertà fondamentali; l’Egitto, i paesi del Golfo, la Turchia, la Russia e la Cina hanno offerto solidarietà a Bashir. A decidere le sorti della rivolta sarà la capacità strategica degli oppositori di tradurla in una rivoluzione o quella del rodatissimo apparato di sicurezza del regime di sfiancarla e spegnerla.

Con Bashir al potere, in ogni caso, un Sudan stabile e al contempo prospero è ontologicamente impossibile.


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