Dove si fanno i bitcoin

Le foto delle fabbriche in Cina dove si fa il "mining" della valuta virtuale, tra migliaia di computer collegati tra loro e una miriade di ventole sempre accese

Un uomo al lavoro in una fabbrica di bitcoin nel Sichuan, 27 settembre 2016
(EPA/LIU XINGZHE/CHINAFILE/ANSA)
Un uomo al lavoro in una fabbrica di bitcoin nel Sichuan, 27 settembre 2016 (EPA/LIU XINGZHE/CHINAFILE/ANSA)

Oltre a produrre buona parte degli oggetti che utilizziamo tutti i giorni, la Cina è anche uno dei più grandi produttori al mondo di bitcoin, la “moneta virtuale” alternativa alle normali valute della quale si è tornati a parlare molto nelle ultime settimane, in seguito al suo primo utilizzo in borsa e al suo valore in sensibile crescita rispetto alle altre monete. Il “mining” dei bitcoin, cioè la loro produzione grazie al mantenimento del sistema informatico che li fa funzionare, avviene in grandi capannoni dove sono raccolte migliaia di computer, che eseguono i calcoli necessari per creare nuova valuta e gestirne gli scambi. I principali stabilimenti si trovano nelle province del Sichuan e dello Shenzhen, di solito nei pressi di grandi centrali elettriche, dalle quali attingono l’energia per alimentare i loro computer.

Molti posti dove si fa il mining dei bitcoin in Cina sono in località segrete, per motivi di sicurezza e in alcuni casi per evitare problemi con i governi locali, che non sempre vedono di buon occhio attività di questo tipo. Altre fabbriche sono invece facilmente identificabili come quelle nelle fotografie, a pochi metri di distanza da centrali elettriche per avere la corrente necessaria per far funzionare centinaia di computer collegati tra loro, e per avere connessioni più veloci a Internet.

Nel 2016 il fotografo cinese Liu Xingzhe ha visitato alcune fabbriche di bitcoin, parlando con le persone che le gestiscono e che si assicurano che i computer funzionino senza intoppi. Gli stabilimenti sembrano una versione rudimentale e più artigianale dei grandi centri dati, come quelli di Google e Facebook, dove migliaia di server mantengono online e funzionanti i loro servizi. I computer per il mining sono ammassati in grandi scaffali, spesso circondati da potenti ventilatori per raffreddare i loro componenti.

Gli addetti, che variano molto a seconda delle dimensioni della fabbrica, lavorano in turni molto lunghi e dormono quasi sempre sul posto, in dormitori talvolta improvvisati.

La necessità di costruire i sistemi nei pressi delle centrali elettriche comporta che a volte le fabbriche siano molto distanti dai centri abitati, rendendo necessari viaggi di ore prima di arrivare a una città. È per questo motivo che molti impiegati dormono direttamente in fabbrica. Alcuni provano ad approfittarne per fare del mining di bitcoin per conto proprio, sfruttando parte dei computer: la pratica è naturalmente vietata dai datori di lavoro, che cercano di tenere sotto controllo i loro dipendenti e se necessario sanzionarli.

Le fabbriche di bitcoin lavorano solitamente per conto di clienti che si trovano all’estero, in molti casi in Occidente. Il loro patrimonio di bitcoin può essere controllato in remoto tramite varie applicazioni, quindi non sempre i capitalisti della valuta virtuale hanno idea di che cosa avvenga a migliaia di chilometri di distanza, dove materialmente si tiene attiva la rete condivisa (peer-to-peer) che fa funzionare i bitcoin.

La valuta virtuale funziona in modo piuttosto complesso. Semplificando all’estremo: tutti i nodi (i computer) della rete condivisa contribuiscono alla gestione e alla sicurezza dei bitcoin, un po’ come avviene nei sistemi per la condivisione dei file come Torrent. Ogni nodo è in competizione con gli altri per trovare il più rapidamente possibile la soluzione a un problema crittografico, che serve per convalidare uno scambio dei bitcoin e garantire che questo avvenga una volta sola e nel modo corretto. A ogni problema è attribuito un valore in bitcoin, quindi più il nodo è grande e potente, più probabilità ha di arrivare per primo alla soluzione e produrre nuova valuta per il suo utente, il mining, appunto. Le fabbriche cinesi sono tra i nodi più grandi e potenti che ci siano, e lavorano per conto di utenti in giro per il mondo trattenendo per sé una commissione.

I bassi costi per la manodopera, per l’energia elettrica e per l’hardware necessario per mettere insieme i computer hanno fatto sì che la Cina sia diventata centrale nella produzione di bitcoin e nel mantenimento di buona parte del suo sistema. L’attività è inoltre molto remunerativa, soprattutto nei periodi come l’attuale dove i bitcoin hanno un valore molto alto, e rendono quindi possibili alti ricavi grazie alle commissioni.

Le fabbriche di bitcoin ronzano tutto il tempo: è il rumore prodotto dalle migliaia di ventole usate per raffreddare i computer, impegnati giorno e notte nei calcoli per risolvere i problemi crittografici. I centri dati costruiti negli ultimi anni da Facebook, Google, Amazon e le altri grandi aziende di Internet sono diventati famosi per l’alta efficienza energetica raggiunta, resa possibile dall’utilizzo di server di nuova generazione che possono lavorare a temperature più alte senza ridurre le prestazioni e di sistemi di raffreddamento a basso impatto, che sfruttano i venti freddi, le maree e altre soluzioni a seconda di dove vengono costruiti. In Cina funziona ancora tutto alla vecchia maniera: i server resistono meglio alle alte temperature, certo, ma per raffreddarli si usano comunque ventole e ventilatori di ogni tipo. I nodi di bitcoin hanno un impatto energetico notevole, soprattutto se si pensa che lavorano per produrre una valuta su cui restano grandi dubbi, sia sul piano della sua stabilità sia sulla possibilità che possa avere un futuro sostenibile.