04 marzo 2014

Ritorno a Fukushima

L'editoriale del numero 547 di Le Scienze, marzo 2014di Marco Cattaneo

IL SOMMARIO DI QUESTO NUMERO

Da qualche tempo a questa parte in rete – soprattutto in inglese, ma anche in italiano – circolano mappe con l’Oceano Pacifico coperto dei colori dell’arcobaleno, che rappresenterebbero la diffusione delle radiazioni immesse nelle acque dalla centrale di Fukushima-Daiichi. Di solito le immagini sono accompagnate da testi un po’ più che allarmistici, direi anzi catastrofisti, sull’apocalisse provocata dall’incidente agli impianti nucleari giapponesi in seguito allo tsunami di tre anni fa.
Una delle più diffuse è la mappa qui a fianco, prodotta dalla Na¬tional Oceanic and Atmospheric Administration. E in realtà rappresenta la massima ampiezza raggiunta dall’onda di tsunami dell’11 marzo 2011, come spiega Kim Martini, giovane ocea¬nografo all’Università di Washington che di recente su deepseanews.com ha fatto un bel debunking delle molte leggende metropolitane fiorite intorno alla contaminazione del Pacifico.

La contaminazione c’è, senza dubbio, come hanno rilevato tra gli altri i ricercatori del Woods Hole Oceanographic Institute. Ma, sottolinea Andrea Bonisoli Alquati a pagina 50, un gruppo dell’Institut de Radioprotection et de Sûreté Nucléaire e della Stanford University ha recentemente stimato che mangiando un trancio di tonno del Pacifico si assumerebbe una dose di gran lunga inferiore a quella che si ingerisce mangiando una banana, alimento che contiene abbondante potassio radioattivo.
Tutto bene, dunque? No. Bonisoli Alquati, con i suoi colleghi alla University of South Carolina, sta studiando gli effetti ambientali del disastro di Fukushima. E a quanto pare finora le conseguenze sulla fauna selvatica potrebbero non essere più miti che a Chernobyl, nonostante il rilascio
di contaminanti radioattivi in Giappone sia stato circa un decimo rispetto a quello della centrale ucraina.

Gli studi condotti da diversi ricercatori nelle aree più contaminate hanno infatti registrato nei dintorni di Fukushima una diminuzione del numero di uccelli e del numero di specie presenti rispetto a prima dell’incidente. I dati sono confrontabili, se non peggiori, con quelli di analoghi censimenti eseguiti a Chernobyl. In particolare, il gruppo di Bonisoli ha condotto studi sulle rondini che non hanno rivelato un aumento del danno genetico, ma hanno comunque indicato quantità di radiazioni compatibili con l’insorgenza di effetti nocivi «in grado di condizionare le prospettive di sopravvivenza e riproduzione». Danni genetici, invece, sono stati riscontrati nelle farfalle.

Se perciò non è il caso di lanciare allarmi planetari per l’imminente fine della vita sulla Terra, non è nemmeno il caso di minimizzare le conseguenze dell’incidente di Fukushima. Paradossalmente invece, al pari di Chernobyl, Fukushima potrà aiutarci a capire l’impatto ambientale e biologico di disastri di questa natura, a valutare meglio le potenziali conseguenze delle nostre attività e a limitare i rischi. Senza alibi, ma anche senza dannosi pregiudizi ideologici.