03 luglio 2015

Un'impronta digitale è quasi per sempre

La stabilità nel tempo delle impronte digitali di una persona è stata confermata da un'ampia analisi statistica, effettuata per mostrare che queste tracce soddisfano anche i criteri di ammissibilità in giudizio di una prova ottenuta con esami scientifici, che tempo fa la Corte suprema degli Stati Uniti ha reso più rigidi(red)

Le impronte digitali di una persona sono stabili nel tempo. Per quanto possa sembrare strano, solo oggi  -  a oltre un secolo dalla prima volta in cui le impronte digitali furono usate per identificare una persona  -  è stata pubblicata una ricerca che dimostra con tutti i crismi della scientificità che le impronte digitali non cambiano nel tempo. Di fatto, i soli studi scientifici sulla persistenza a lungo termine dei modelli delle creste e dei solchi (detti anche dermatoglifi) che caratterizzano in modo unico i polpastrelli erano finora quelli pubblicati da Francis Galton nel 1892 e da William James Herschel (nipote dell'astronomo William Herschel) nel 1916, che si basavano su casi di studio.

Un'impronta digitale è quasi per sempre
© Danilo Calilung/Corbis
Per molto tempo nelle aule di giustizia è sembrato sufficiente, anche perché l'esito di quegli studi era confortato dalla pratica operativa della polizia. In effetti, l'attività di polizia confermava che i modelli delle creste papillari delle mani e piedi sono estremamente stabili e soggette a cambiamenti molto limitati (a parte eventuali cicatrici).

Le cose sono però cambiate quando, impegnata a decidere sull'ammissibilità in giudizio di una prova scientifica, nel 1993 la Corte suprema degli Stati Uniti stabilì una serie di criteri che dovevano essere soddisfatti (detto criteri di Daubert), molto più stringenti di quelli fino ad allora considerati (il cosiddetto standard Frye). Fra i nuovi criteri c'era in particolare la valutazione del tasso statistico di errore, un dato pacificamente disponibile per l'unicità delle impronte digitali, ma non per la loro durata nel tempo a lungo termine, proprio per l'assenza di studi sistematici.

Questa lacuna, che negli Stati Uniti ha dato origine a un'innumerevole serie di contenziosi legali, è ora colmata dallo studio condotto da Soweon Yoon, del National Institute
of Standards and Technology (NIST) e da Anil K. Jain dell'Università del Michigan, che firmano un articolo pubblicato sui "Proceedings of tha National Academy of Sciences".

Per arrivare alla loro conclusione, Yoon e Jain hanno analizzato le impronte digitali di 15.597 soggetti fermati più volte (almeno cinque) dalla polizia di Stato del Michigan in un arco di tempo variabile fra i 5 e i 12 anni. I ricercatori hanno rilevato che gli indici di somiglianza fra due singole impronte successive di buona qualità fornite da una stessa persona diminuivano lievemente nel corso del tempo, ma permettevano comunque un'identificazione accurata. Lo stesso valeva nel anche nel caso di un confronto fra impronte di qualità non ottimale quando queste siano relative a due o più dita.

Gli esperti concordano sul fatto che la ricerca di  Yoon e Jain abbia stabilito un punto fermo in una delle questioni più discusse dell'identificazione con le impronte digitali: "La stima analitica della durata nel tempo delle impronte digitali, coerente con i primi studi sull'argomento, soddisfa i nuovi requisiti di legge per l'ammissibilità delle prove, che contemplano anche la pubblicazione su riviste con revisione fra pari”, ha detto Jim Loudermilk, responsabile dell'Integrated Automated Fingerprint Identification System (IAFIS) dell'FBI, la banca dati di impronte digitali resa famosa dalla serie televisiva CSI.