• Libri
  • Giovedì 22 ottobre 2015

Un bestseller sulla morte è possibile

Da un anno nella classifica dei libri più letti del New York Times ce n'è uno che parla di vecchiaia e malattia, e di come dovremmo affrontarle

La copertina del libro
La copertina del libro

Da 53 settimane nella classifica dei bestseller del New York Times c’è un libro sulla morte. Si intitola Being mortal, Medicine and what matters in the End (Essere mortale, La medicina e quello che conta alla fine) ed è stato scritto da Atul Gawande, un chirurgo americano di origini indiane, collaboratore del New Yorker e autore di altri tre libri sulla medicina tradotti in italiano da Einaudi e da Fusi orari, la casa editrice di Internazionale. Non capita spesso che un libro rimanga per più di un anno nelle classifiche del New York Times, se parla di morte è ancora più inusuale.

81vNKuv1JrL

Being Mortal è un saggio sul modo in cui moriamo: intreccia riflessioni sul lavoro dei medici e su come funzionano gli ospedali a resoconti di esperienze personali e professionali dell’autore. È diviso in due sezioni: nella prima Gawande confronta i modelli sociali e medici con cui affrontiamo la vecchiaia e la malattia, cioè all’interno di famiglie dove convivono varie generazioni o nelle case di riposo, concludendo che quest’ultima è la soluzione migliore. La seconda parte parla dell’atteggiamento dei medici verso la morte e su come potrebbero migliorarlo. Le due sezioni sono unite da due capitoli con alcuni saggi di Gawande già usciti sul New Yorker: uno descrive in modo dettagliato e molto crudo come invecchiano le parti del corpo, un altro consiglia ai medici, una volta constatato che non c’è più niente da fare, di lasciare andare i malati. Il libro raccoglie anche molte storie che riguardano sia i pazienti di Gawande che la sua famiglia. Racconta per esempio di come suo padre, anche lui medico, scoprì di avere un tumore a partire dai primi sintomi: un dolore al collo e un fastidio a un dito.

«Il successo del libro mi ha sorpreso – ha detto Gawande un’intervista al New York Times dopo un anno di permanenza in classifica – vista l’abituale riluttanza della società a parlare della fine della vita. Non è un libro facile. Dal capitolo due inizi a leggere che i denti ti cadranno, il cervello si rimpicciolirà, la vista si offuscherà. E in ogni caso – attenzione: spoiler – alla fine muori».

La tesi più interessante di Being mortal è che la comunità medica è più concentrata sulla malattia che sulla vita del paziente. Che senso ha, per esempio, impedire a un malato terminale di mangiare quello che gli piace, come fanno molte cliniche e ospedali? O perché vietargli di portarsi in clinica il cane o il gatto? Agli immensi progressi raggiunti dalla medicina nella cura delle malattie o nella gestione della nascita non corrispondono, secondo Gawande, progressi paragonabili nel modo di affrontare la vecchiaia e la morte. Essendo incapaci di affrontare le paure e le sofferenze dei malati e delle loro famiglie, i medici tendono ad alimentare false speranze di guarigione prescrivendo cure che, però, non fanno che peggiorare e accorciare la vita dei pazienti.

Il neurologo e scrittore Oliver Sacks, morto lo scorso 30 agosto, ha scritto a proposito del libro: «Siamo arrivati a medicalizzare l’invecchiamento, la fragilità e la morte, trattandoli come se fossero solo un problema clinico in più da sconfiggere. Invece non si ha bisogno solo della medicina negli anni del declino, ma della vita: una vita con un significato, una vita ricca e piena, per quanto sia possibile in quelle circostanze». Being mortal ha successo perché non è solo un libro sulla medicina, ma sulla nostra idea della morte. Oggi il modo in cui le persone muoiono è determinato dalle decisioni e dall’atteggiamento dei medici: cambiarlo significa cambiare l’atteggiamento verso la morte di tutti. Gawande scrive anche il suo medico ideale è il Dottor Watson, quello di Sherlock Holmes, che è anche il suo personaggio preferito della serie: «è intelligente, attento e leale, come tutti i dottori dovrebbero essere».

Gawande spiega che «Accettare la propria mortalità e comprendere in modo chiaro i limiti e le possibilità della medicina è un processo, non una rivelazione». Una comprensione che trascende la medicina, e che spiega forse il successo del libro: leggerlo, e ancora più scriverlo, è un modo per pensare alla propria vita e al proprio essere mortali. «Non mi sento per niente meglio per il fatto di dovere morire», ha detto Gawande al New  York Times, «ma adesso ho più chiaro che per me esistono cose più importanti del semplice restare vivo, e che ci sono cose che io non voglio sacrificare in cambio di tempo in più. Come per esempio la capacità di comunicare e relazionarmi con gli altri». Il libro verrà pubblicato in Italia da Einaudi e uscirà probabilmente a marzo 2016.