Fotografie di donne condannate per “reati contro la morale” in Afghanistan

Un reportage su donne incarcerate per aver violato "la legge di Dio", spesso destinate a essere uccise una volta rilasciate

La foto di una donna detenuta con la sua bambina in un carcere dell'Afghanistan (dal libro "Almond Garden" di ©Gabriela Maj)
La foto di una donna detenuta con la sua bambina in un carcere dell'Afghanistan (dal libro "Almond Garden" di ©Gabriela Maj)

Gabriela Maj è una fotogiornalista polacco-canadese che ha collaborato con diverse testate internazionali e televisioni. Il suo ultimo lavoro è stato raccolto in un libro intitolato “Almond Garden” e racconta per immagini e attraverso una serie di interviste la vita delle donne afghane detenute in carcere per “reati contro la morale”. “Reato contro la morale” è un termine molto vago applicato per qualsiasi violazione della legge islamica, la shari’a: in alcuni casi queste donne sono fuggite da matrimoni in cui venivano abusate o ridotte a condizioni di schiavitù domestica, in altri sono colpevoli di aver fatto sesso prima o fuori del matrimonio (nel diritto islamico, si tratta del reato di zina), in altri casi ancora si tratta di donne che sono state stuprate o costrette a prostituirsi. Mentre i responsabili di queste violenze restano liberi, le loro vittime sono condannate a vivere in carcere, a volte incinte e con poche speranze di un futuro per sé e per i propri figli.

Gabriela Maj ha avviato il suo progetto nel 2010 su incarico e per uno specifico servizio. Nei quattro anni successivi, fino al 2014, è tornata in Afghanistan sei volte cercando di avere accesso anche ad altre carceri del paese, spesso non ottenendo il permesso. In diverse prigioni le è invece stato concesso di entrare, perché era una donna e dunque il suo lavoro non era percepito come minaccioso o politicamente rilevante: in molti casi, quando veniva lasciata alla sola presenza di un’interprete, è riuscita a parlare liberamente con le detenute. Ha avuto contatti con decine di donne nelle loro celle, venendo molto spesso disprezzata perché le trattava con cura e dignità. Maj ha pubblicato solo le parole o le immagini per le quali ha ricevuto uno specifico permesso dalle dirette interessate: i nomi delle donne sono stati comunque cambiati e le loro storie sono state volutamente separate dai loro ritratti.

Le carceri in Afghanistan, ha spiegato la fotografa, non hanno sbarre e non prevedono particolari uniformi: questo significa che le donne possono in una certa misura personalizzare i loro spazi e prendersi cura dei loro figli nonostante siano molto vulnerabili allo sfruttamento sessuale (molto spesso sono infatti detenute in carceri miste e sorvegliate da uomini). Nonostante i bisogni primari siano “garantiti”, le cure mediche variano da una struttura all’altra e in generale sono assenti le risorse a disposizione per la loro salute mentale. Non c’è poi alcuna garanzia sulla loro vita dopo il rilascio. Molte donne, a specifica domanda della fotografa, hanno risposto «sarò uccisa». Le donne accusate di reati contro la morale sono infatti destinate a essere ripudiate dalla famiglia poiché rappresentano una “vergogna” per la comunità e, una volta uscite, non hanno più un posto dove andare a vivere. Dopo aver concluso il suo progetto Maj ha cercato con difficoltà di non perdere i contatti con le donne che aveva incontrato: alcune di loro hanno trovato un posto nei rifugi a loro dedicati (che sono comunque molto pochi e concentrati solo in alcune zone del paese), almeno due sono state uccise dai membri delle rispettive famiglie nei cosiddetti “delitti d’onore”.

Negli ultimi anni, dopo la caduta del regime dei talebani, in Afghanistan hanno ripreso forza i movimenti conservatori. Secondo Human Rights Watch il 95 per cento delle ragazze e il 50 per cento delle donne rinchiuse nelle carceri dell’Afghanistan ha commesso “reati contro la morale”. Le ultime statistiche disponibili del ministero dell’Interno indicano che il numero di donne e ragazze imprigionate per “crimini morali” in Afghanistan era salito a circa 600 nel maggio 2013 da 400 nel mese di ottobre 2011.

L’Afghanistan ha adottato alcune misure “di facciata” – soprattutto a causa delle pressioni internazionali – per affrontare la violenza contro le donne, tuttavia non vengono molto spesso applicate, sono poco incisive e sono sotto continuo attacco. Nel 2014, per esempio, le due camere del Parlamento dell’Afghanistan avevano approvato una modifica al codice di procedura penale che vietava ai parenti delle persone accusate di testimoniare nei processi a loro carico: questo dà sostanzialmente il permesso agli uomini che hanno commesso abusi o violenze domestiche di restare impuniti davanti alla legge, con la conseguenza di ridurre letteralmente al silenzio sia le vittime della violenza che la maggior parte dei potenziali testimoni. Va ricordato che la maggior parte degli abusi contro le donne in Afghanistan, come altrove, avviene all’interno della famiglia e da parte di aggressori maschi: una società strutturata in nuclei che vivono in complessi piuttosto isolati, circondati da mura e spesso con le finestre dipinte proprio perché le donne non possano essere viste dall’esterno.