La rivoluzione sbagliata ( o mancata?) di internet e social media

I social network non hanno mantenuto le promesse e ora sono un ponte per la diffusione di offese, troll e fake news. Il mea culpa del co-fondatore di Twitter, Evan Williams, deluso (anche) per aver favorito l'elezione di Trump

"Internet si è rotto, non funziona più". L'allarme non arriva dal politicante di turno, né dall'intellettuale che si rifugia nei libri e rifugge la vita. No, il commento tranchant è opera di Evan Williams, co-fondatore di Twitter, il social network che, più di ogni altro simile, ha sulla coscienza "la fine della Rete".

Williams è stato uno dei più attivi nel cavalcare il web concepito come strumento di rivalsa per quella massa che, finalmente, dopo secoli di silenzio avrebbe potuto contare su un mezzo perfetto per esprimere idee, proporre progetti, offrire punti di vista alternativi su norme stabilite dall'alto. Tutto molto bello, in teoria.

"Pensavo che se avessimo dato a tutti la possibilità di parlare e scambiare informazioni, il mondo sarebbe diventato in automatico un posto migliore. Ma mi sbagliavo", ha dichiarato Williams al New York Times.

Con i social parola a legioni di imbecilliMa qual è la causa del male? "Il problema è non tutti siamo persone dotate di buonsenso". Un modo cortese per condividere l'atteggiamento di Umberto Eco ("Con i social si dà parola a legioni di imbecilli"). Il concetto è quindi chiaro, come dimostra l'evoluzione di piattaforme che dominano la società e mutano i nostri comportamenti: su tutte Facebook e Twitter. Sulla prima si susseguono i video di suicidi, stupri e assassini, la seconda è invece il regno dei troll e delle fake news. Senza dimenticare fenomeni come il bullismo e le molestie, che online continuano a diffondersi a macchia d'olio.

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Evan Williams, co-fondatore di Twitter[/caption]

L'uscita di Williams non coglie certo di sorpresa, perché sono evidenti le metamorfosi che stanno vivendo i social network. Premesso che ognuno ha una storia a se, determinata dalle differenze di metriche, strumenti disponibili, modalità di interazione, legami con gli inserzionisti e ampiezza della comunità, il caso di Twitter è uno dei più deludenti per chi credeva nel cambiamento grazie al web. La peculiarità dei 140 caratteri sembrava avesse le possibilità di sovvertire le dinamiche dell'informazione e per un certo periodo c'era pure riuscita.

Basta tornare indietro di un lustro e pensare alla Primavera Araba, con i giovani che grazie al sito di microblogging sono riusciti a rivoluzionare lo status quo in paesi dominati da presidenti al potere da decenni. La protesta del tunisino Mohamed Bouazizi che il 18 dicembre 2010 si diede fuoco per protestare contro i maltrattamenti della polizia innescarono una serie di movimenti in grado di rovesciare la società in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Siria, Marocco e altri stati africani e medio orientali. Filmati di piazza gremite, informazioni di prima mano, video amatoriali e dichiarazioni di potenti e gruppi di protesta arrivavano su Twitter per poi esser ripresi da tv, radio e siti web di tutto il mondo. Un'ondata clamorosa e improvvisa che costrinse ad abbassare la testa a capi di Stato come Muhammad Gheddafi, Zine El-Abidine Ben Ali, Hosni Mubarak e Ali Abdullah Saleh.

A quel tempo (2011-2012), Twitter era il centro dell'informazione, perché brevità e diffusione ne fecero il canale privilegiato di tanti personaggi pubblici, come sportivi, politici e stelle dello spettacolo. Un ruolo che, almeno in parte, è rimasto col passare degli anni, anche se non è mancata una migrazione verso altre piattaforme (quelle che continuano ad aggiungere funzioni e richiamare pubblico, come Snapchat e Facebook). Adesso invece lo scenario è cambiato radicalmente e le derive nell'utilizzo delle funzioni e dei mezzi disponibili sono all'ordine del giorno. A rimetterci è, però, proprio l'informazione, che se resta ancorata ai social media (e alle dichiarazioni di chi ne fa il proprio, talvolta unico, canale di comunicazione), viaggia in mezzo a un'orda di disturbatori seriali mossi dalla voglia di offendere e screditare qualcuno o qualcosa.

In pochi possono comprendere le pericolosità di tali storture come Evan Williams, già padre di Blogger, una delle prime piattaforme a consentire a chiunque di poter scrivere e pubblicare contenuti testuali in rete (poi venduto a Google), e fondatore di Medium, altra piattaforma minimalista pensata per rimettere le parole al centro del dibattito online. Un tentativo che nonostante l'attenzione (specie degli addetti ai lavori) fatica a sostenersi, tanto che lo scorso gennaio un terzo dei dipendenti è stato licenziato, in attesa di capire come si riesca a monetizzare un business basato solo ed esclusivamente su contenuti testuali (rinunciando alla pubblicità restano gli introiti via abbonamento, ma la formula è tutt'altro che vincente, almeno finora).

La mazzata finale al pessimismo di Williams è arrivata da Donald Trump, o meglio dalla sua ascesa verso Washington D.C.: "Credo che se non ci fosse stato Twitter non sarei diventato Presidente degli Stati Uniti", ha affermato l'inquilino della Casa Bianca durante una recente intervista tv su Fox. Parole dure come un macigno per Williams, consapevole che la sua creatura abbia favorito l'imprenditore newyorchese, i cui cinguettii hanno agevolato invece la diffusione di fake news e quella abitudine a  distorcere la realtà con la quale dobbiamo (e dovremo a lungo) ancora fare i conti. "Questa è una cosa molto brutta e di cui mi dispiace".