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stagedi Fabio Savelli

Francesco ha deciso di fare la notte. Cinquantasette anni, padre di due figlie. Qualche mese fa si è presentato, alle sette di sera, al centro per l’impiego di San Benedetto del Tronto e lì è rimasto fino alle nove meno un quarto del mattino dopo. Non per un posto di lavoro, ma per uno stage di sei mesi in una piccola cooperativa con un rimborso spese di 650 euro mensili.

Non è stato l’unico a mettersi in coda. Prima dell’apertura degli sportelli erano in 73 per cercare di accaparrarsi uno dei 90 posti – tra San Benedetto del Tronto e Ascoli Piceno, dove la gente in attesa era molta di più – messi in palio dalla regione Marche per disoccupati over 30.

“Se va in porto – ha raccontato candidamente a diversi giornali locali – mi permetterebbe di rientrare dalla finestra in un settore produttivo dove sento ancora di poter dare molto”.  Francesco ha gestito in passato uno studio di consulenza grafica, poi la crisi ha colpito pesante ed è stato costretto a mettere in liquidazione la sua società. “Ho una famiglia mantenere – ha spiegato quasi giustificandosi – le mie figlie sono in stage come me a reddito zero”.

Potremmo definirli stage circolari. Non più curriculari, legati ad un percorso formativo, introdotti ora anche dal programma governativo alternanza scuola-lavoro. Tanto meno extra-curriculari. Attivati dalle regioni, che sondano (almeno quelle più virtuose) le aziende e fanno da ponte con i giovani a caccia del primo impiego fornendo la copertura assicurativa contro gli infortuni e, magari, un rimborso spese.

Qui, invece, siamo nel campo della circolarità del mercato del lavoro. Si comincia con un tirocinio, si trova un impiego, si torna allo stage prima della pensione. Prodigi di un mercato talmente mutevole che fa impazzire gli uffici studi. Sconfessa le leggi sul lavoro ispirate alla flessibilità, complica i progetti dei ragazzi perché le aziende hanno ormai piani di sviluppo a breve termine e mal digeriscono impegni duraturi seppur attenuati dal Jobs Act e dal crollo di quel totem che era l’articolo 18 dello Statuto.

Eppure stavolta conviene fissare un punto. Una guida per districarsi tra gli stage giusti. E quelli meno giusti. Sono 450mila i tirocini attivati ogni anno in Italia. Come testimonia la storia di Francesco ormai non riguardano più soltanto i nostri giovani che devono ancora formarsi.

Però loro restano la parte maggioritaria. Sul tema l’osservatorio più puntuale l’ha realizzato una donna. Una giornalista.  Si chiama Eleonora Voltolina. Che ha fondato il portale “La Repubblica degli Stagisti” e ha ideato un caleidoscopio sotto il quale monitorare le aziende che  “prendono in carico” gli stagisti  (è la formula usata anche dal progetto Garanzia Giovani del governo, naufragato al momento con tanto di sperpero di soldi).

Sono tre i requisiti fondamentali, tramite i quali si può attribuire un voto all’azienda ospitante:
1) L’entità del rimborso spese (qui dipende dalle regioni, che possono o meno fissare una soglia minima); 2) La trasparenza delle informazioni sul progetto formativo;
3) Il tasso di assunzione al termine degli stage.

Una piccola società di consulenza informatica, la Everis (prendete nota e inviate il Cv) è risultata la migliore perché il 90% dei tirocinanti è stato poi assunto. Il miglior rimborso spese l’ha “concesso” – perché l’ammontare è discrezionale – la Tetrapack: 950 euro al mese.

Sul blog la “Nuvola del lavoro” del Corriere della Sera è stata recentemente pubblicata una mappa per orientarsi nel ginepraio chiamato stage. Il primo consiglio – rivelano gli esperti – è raccogliere il massimo numero di informazioni sull’azienda ospitante: qualsiasi dato di bilancio che possa essere utile per capire in quale situazione economica versa.

Nel caso delle aziende importanti non è complicato comprenderlo e in soccorso, spesso, ci vengono le cronache dei giornali (a proposito, leggiamone almeno uno al giorno, ci aiuterà anche nella ricerca di lavoro) che raccontano una determinata azienda e il contesto in cui opera.

Il secondo è altrettanto informativo: conoscere qual è la normativa regionale di riferimento esplicitata sul portale dell’ente locale. Perché ogni regione ha normato la materia a suo modo. E alcune hanno messo nero su bianco l’obbligatorietà del rimborso.

Il terzo consiglio è capire a quanto ammonta il tasso di assunzione al termine dello stage. Evitare come la peste, chiedendolo al colloquio, le aziende che fanno turn-over degli stagisti per compensare carenze di organico. Il quarto (e ultimo)investe il terreno dei benefit accessori. Un’azienda che riconosce i buoni pasto o la navetta per il trasferimento al luogo di lavoro denota serietà e progettualità a lungo termine. Va preferita.

Certo, spesso, le accortezze di cui sopra non bastano. Alcuni annunci, per come sono stati scritti, consentono di smascherare forme di lavoro subordinato. Che sono “altro” rispetto allo stage, che non crea montante contributivo per la futura pensione. Non concede indennità di malattie, non dà diritto alle ferie e al trattamento di fine rapporto proprio perché non è un rapporto di lavoro.

Un avvocato alcuni giorni fa ha scritto una lettera all’Ordine di Milano denunciando un’inusuale ricerca di uno studio legale internazionale.

“Costituisce requisito preferenziale una pregressa esperienza di stage presso studi di legali di diritto del lavoro”, era messo nero su bianco. No, questo non è concepibile. Negli studi legali il tirocinio si chiama praticantato forense ed è propedeutico all’esame di Stato per diventare avvocato. Gli stagisti non possono avere la partita Iva, requisito che possiede solo il soggetto che svolge con continuità la professione.

Non siamo nemmeno lontani dallo scenario americano dove gli stage vengono persino pagati. A Washington, ad esempio, ci sono parecchie agenzie che promettono un incarico in cambio di un compenso. Tra le più note c’è “The Washington Center” che – si legge sul suo sito – ha “piazzato” oltre 50mila studenti provenienti da tutto il mondo.

La spesa – tra vitto, alloggio e commissione per l’agenzia – per un incarico di due mesi si attesta attorno ai 15mila dollari. Una cifra considerevole che i più considerano un investimento, ma è evidente che un sistema di questo tipo non supporta la mobilità sociale, tendendo a favorire i giovani che appartengono a famiglie con elevate risorse economiche a prescindere dalle loro effettive capacità e competenze.

Anche da noi ha cominciato qualcuno. C’è una società di collocamento made in Italy che trova stage a pagamento. Si chiama Career Paths e organizza per studenti tra i 18 e i 25 anni, non un semplice tirocinio, ma coaching, consulenze, revisione del curriculum, assistenza full-time, “attività per completare e arricchire l’esperienza professionale” anche a Milano.

Eppure gli Stati Uniti presentano anche l’altro lato della medaglia, grazie alla corsa dei colossi hi-tech nell’accaparrarsi i migliori stagisti fuoriusciti dalle università. Un mese di stage a Google, a Mountain View, può fruttare fino a 6mila dollari.

Ripiegare su Apple, a Cupertino, percependone 6.700, equivale a fare bingo. Perché poi si finisce nell’organico di queste multinazionali con la possibilità di invitanti opportunità all’estero.  Una via di mezzo interessante può essere quella che offre l’agenzia per il lavoro FourStars. Che da anni sviluppa programmi di stage a Hong Kong e Shanghai. Con 600 aziende partner.

L’agenzia lavora molto sulle capacità comunicative dei candidati, l’intelligenza emotiva, l’empatia. Perché i cinesi sono molto più rigidi nell’approccio professionali, meno flessibili. Al termine dei tirocini oltre il 50% dei candidati viene assunto.

L’altro 50% ha le porte spianate per un mercato da 1,3 miliardi di potenziali clienti. Se lo stagista poi ha imparato il mandarino (o almeno l’inglese) la sua porta d’accesso al mercato del lavoro è il mondo.

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