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La politica estera afro-americana: i neri musulmani

Insieme al legame con l’Africa, l’islam è il più importante elemento fondativo della politica estera della comunità afro-americana. La storia di Malcolm X e della Nation of Islam.
di Enrico Beltramini
Pubblicato il Aggiornato il
[Malcolm X durante un comizio. Fonte: <a href=http://america.aljazeera.com/watch/shows/the-stream/the-latest/2013/11/7/revisiting-malcolmx.html target=_blank>america.aljazeera.com</a>]
[Malcolm X durante un comizio. Fonte: america.aljazeera.com

In generale, non è mai stato facile essere musulmano in America. Men che meno per gli afroamericani. Ai tempi della schiavitù, i pastori cristiani promettevano la libertà postmortem agli schiavi che abiuravano la loro fede islamica. Anche dopo, le cose non sono migliorate.


È una lunga storia. Negli Usa ci sono circa un milione e mezzo di neri islamici. Spesso sono stati guardati con sospetto in quanto non cristiani. A volte perché separazionisti, ossia propositori di una specie di nazione nera islamica autonoma all’interno degli Stati Uniti.


In realtà, sono pochi i nazionalisti islamici neri, ma ben organizzati. La Nation of Islam è certamente la più importante – anche se non la più grande – organizzazione nera musulmana. Sede a Chicago, divenne famosa negli anni Sessanta, grazie a Malcolm X, che ne era il portavoce ufficiale.


Grazie a Malcolm X, la Nation of Islam divenne famosa. Ma non senza qualche preoccupazione. I suoi membri erano (e ovviamente sono tutt’ora) musulmani e separazionisti. Promuovono la costruzione e la difesa di una nazione nera musulmana posta all’interno, nel cuore della realtà bianca cristiana.


Consapevoli della delicatezza della loro posizione, i capi della Nation of Islam non hanno mai promosso iniziative politiche, almeno fino al 1995. Si sono accontentati di mostrare la loro diversità, indossarla come un’uniforme, e tenersi alla larga dalla vita pubblica americana.


Unica eccezione, appunto, Malcolm X. Considerato un nemico dei bianchi, morì per mano dei neri. Temuto alla stregua di un terrorista, in realtà non fuoriuscì mai dai confini del confronto dialettico.


Se Martin Luther King era un pastore prestato alla politica, Malcolm X era un agente culturale prestato alla politica. La sua condotta immacolata, la sua figura torreggiante, la sua logica implacabile, la sua devozione per la causa nera, la sua totale e indiscutibile incorruttibilità ne fecero la figura archetipale del Black Power. Creò un vocabolario e dotò una certa comunità nera di una grammatica.


La sua dimensione politica non era sincronizzata con l’elaborazione intellettuale, che procedeva a velocità superiore e che rendeva obsolete le posizioni politiche appena faticosamente raggiunte. Fino a quando restò nella Nation of Islam, poté sfruttare la sua organizzazione per promuovere il proprio messaggio. Quando si ritrovò da solo, si accorse di non avere un veicolo politico che ne promuovesse e diffondesse le idee. Mancava di un veicolo e pure di un piano d’azione.


Mancava di quello che aveva creato Martin Luther King: un’organizzazione politica. Malcolm X non era un politico, nel senso che mancava della lucidità di interpretare i fenomeni storici in termini politici, e della capacità organizzativa per esercitare pressione politica.


Malcolm abbracciò l’islam perché il cristianesimo era la religione dei bianchi. Una religione che aveva accettato e approvato la schiavitù di alcuni uomini su altri uomini. Insomma, legava il cristianesimo alla razza bianca e l’islam a quella nera.


Nell’ultimo anno della sua vita, Malcolm andò in Medio Oriente e poi in Africa. In Arabia, in Egitto, e in tanti altri paesi islamici. Incontrò tutti i leader politici delle principali nazioni islamiche dell’Africa e dell’Asia mediorientale. Discusse con loro da pari a pari, trattato come un diplomatico. E vide il collegamento tra la discriminazione razziale in America e il colonialismo nel terzo mondo, ma smise di leggerlo in termini di bianchi contro neri.


Era, scrisse, più una realtà di oppressione e di oppressi. Rivide le sue posizioni più radicali. Restò scettico sul cristianesimo, ma si mostrò possibilista sulle relazioni razziali. Era un nazionalista musulmano nero ma in Africa scoprì l’esistenza dei nazionalisti musulmani bianchi. Era un nazionalista musulmano nero, ma pochi mesi prima di morire spiegò che nella sua organizzazione potevano entrare musulmani e non. Era un separatista – nel senso che abbiamo spiegato sopra – ma nel 1964 stava cominciando a costruire una piattaforma comune con gli integrazionisti.


È stata proprio questa commistione tra islamismo e nazionalismo nero che ha reso altamente sospettosa la società americana nei confronti dei musulmani neri. Ecco perché nei decenni scorsi chiunque in America si proponesse pubblicamente come musulmano, era immediatamente guardato con sospetto, e messo ai margini della società.


Ovviamente, razzismo, separazionismo e islamismo hanno giocato in forme diverse nelle diverse circostanze storiche. Nel 1968, Richard Nixon poté usare il codice razzista perché la crisi d’ordine era causata anche dall’esplosione dei ghetti e dalle rivendicazioni sociali del Black Power.


Dodici anni dopo Ronald Reagan poté impiegare lo stesso codice per dipingere i neri come corresponsabili della perdita di competitività del sistema industriale facendo leva sulla bassa efficienza delle linee di montaggio, piene di colletti blu afro-americani.


Nel 2004 George W. Bush poté legare la sicurezza nazionale alla lotta all’islamismo, e la lotta all’islamismo alla comunità afro-americana, che al 15% è appunto islamica.


L’irrazionalità, l’antipatriottismo, la sempre latente inclinazione al separatismo e al nazionalismo. Queste le accuse di Nixon. La poca voglia di lavorare, la mancanza di spirito d’iniziativa, la marcata preferenza per lavori poco impegnativi, poco professionali, poco coinvolgenti. Queste le abbastanza esplicite assunzioni di Reagan. La connivenza con il nemico, la quinta colonna, il traditore nel cortile di casa. Questo il messaggio di Bush.


Tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Ottanta, la Nation of Islam è stata più volte accusata di atteggiamenti e posizioni antisemiti.


In una lettera inviata al Wall Street Journal nel 1997, Louis Farrakhan, leader della Nation of Islam, ha dettagliatamente spiegato che la sua organizzazione non è contro il giudaismo, religione a cui al contrario guarda con simpatia. Non è neppure attraversata da sentimenti antiebraici, ma al massimo può essere accusata di nutrire sentimenti antisionisti.


Il punto, insomma, non sono gli ebrei e neppure la loro religione, quanto il nazionalismo ebraico e, in ultima istanza, lo Stato di Israele.