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  • Venerdì 13 gennaio 2017

«Non ditemi che le parole non contano»

Le storie di 11 formidabili discorsi di Barack Obama, ché non ce ne saranno altri così

di Francesco Costa – @francescocosta

Barack Obama durante il suo ultimo discorso da candidato, il 5 novembre 2012 in Iowa. (AP Photo/Carolyn Kaster)
Barack Obama durante il suo ultimo discorso da candidato, il 5 novembre 2012 in Iowa. (AP Photo/Carolyn Kaster)

Al di là delle opinioni di ciascuno di noi, serviranno il tempo e il lavoro degli storici per avere un’idea profonda e adeguatamente ragionata sui risultati ottenuti da Barack Obama negli otto anni in cui è stato presidente degli Stati Uniti d’America. I bilanci attuali sono interessanti e necessari, anche perché non ne abbiamo di altri, ma sono inevitabilmente schiacciati sul presente; molte delle scelte di Obama però si potranno valutare adeguatamente solo tra qualche anno. Così come le politiche degli anni di Clinton generarono una grande crescita economica ma forse misero le premesse per la crisi del 2008, servirà del tempo per capire davvero le conseguenze di decisioni articolate e complesse come l’accordo sul nucleare iraniano o la riforma sanitaria. Se volete già approfondire qualcosa, qui ci sono – in inglese – alcune analisi che vale la pena leggere. Poi ci sono i discorsi.

La carriera politica di Barack Obama è stata scandita da una grandissima quantità di discorsi memorabili per intensità, importanza ed efficacia. L’obiezione più semplice a questo punto è: sono semplicemente parole. Ma le parole di Obama in più di un’occasione hanno avuto conseguenze concrete, hanno cambiato lo scenario in modi tangibili e intangibili; e in generale, il discorso politico è da sempre un formidabile mezzo per influenzare il dibattito pubblico, dare spessore e profondità a una proposta, generare consenso attorno a un’idea o a se stessi, ottenere risultati. Lo stesso Obama ha fornito forse la migliore risposta a questa domanda durante la campagna elettorale del 2008.

Non ditemi che le parole non contano. “I have a dream”. Solo parole? “We hold these truths to be self evident, that all men are created equal”. Solo parole? “We have nothing to fear but fear itself”. Solo parole, solo discorsi? È vero che i discorsi non risolvono tutti i problemi, ma è vero anche che se non riusciamo a ispirare il nostro paese, a convincerlo a credere in qualcosa, non importa quante riforme e policy abbiamo in testa. Non ditemi che le parole non contano!

Insomma, i discorsi hanno conseguenze politiche, e le conseguenze politiche hanno conseguenze concrete. Obama ha sempre usato il discorso politico come mezzo per ottenere un obiettivo, e non come esercizio di stile: si può discutere volta per volta di quanto l’obiettivo fosse sensato, o se il tono e le parole scelte fossero o no appropriate, ma non che questa fosse la sua intenzione. Quando è diventato presidente, poi, i suoi discorsi hanno spesso ambito a riunire il paese attorno a una comune identità, in un’epoca di polarizzazione senza precedenti: erano tentativi di descrivere e rappresentare un terreno comune per tutti, e quindi avvicinare un po’ tra loro i cittadini di un paese sempre più frammentato e diviso.

“Non ditemi che le parole non contano”, peraltro, in inglese è “Don’t tell me words don’t matter”: una frase istantaneamente memorabile ed esemplare di un’altra ragione per cui i discorsi di Obama sono così apprezzati ed efficaci. Un buon discorso è scritto e pronunciato quasi come una canzone o una poesia, con le parole messe l’una accanto all’altra facendo attenzione al loro suono, al loro ritmo. Obama, che tra le altre cose è uno scrittore, riesce a ottenere questo raro risultato sia quando legge un discorso preparato in anticipo – i suoi speechwriter dicono sempre che è il miglior speechwriter che abbiano mai conosciuto – sia quando va a braccio.

Boston, Massachusetts, 27 luglio 2004

Nel 2000 Obama era un senatore statale dell’Illinois. Quell’estate cercò all’ultimo minuto di assistere alla convention del Partito Democratico di Los Angeles: prese un volo da Chicago, una volta arrivato cercò di noleggiare un’auto ma la sua carta di credito fu rifiutata, in qualche modo arrivò al palazzetto della convention ma non riuscì a ottenere un accredito. Seguì i lavori della giornata da una sala congressi nelle vicinanze e il giorno dopo tornò a casa, sconfitto. Quattro anni dopo, nel 2004, era cambiato tutto: si era candidato al Senato federale in Illinois e in primavera aveva stravinto le primarie del partito locale. Era ancora un completo sconosciuto ma aveva una bella storia, era nero ed emergente: il Partito Democratico lo scelse allora come keynote speaker della convention di Boston, quella che assegnò la nomination a John Kerry. Il keynote speech non è il discorso più importante della convention, ma quello che in qualche modo dovrebbe dare il tono all’intero evento: la sintesi del messaggio del partito, un simbolo, un discorso esemplare.

Obama aveva scritto il discorso da solo, ci aveva messo qualche settimana e parecchie revisioni. Lo aveva imparato a memoria, per evitare guai, ma quel giorno avrebbe letto da un gobbo elettronico: diversi funzionari del partito erano preoccupati perché Obama non lo aveva mai usato prima. Alle 21.45, un momento prima di salire sul palco, sua moglie Michelle gli disse scherzando: «Don’t screw this up». Non fare cazzate. Obama salì sul palco e pronunciò il discorso che lo avrebbe reso istantaneamente la persona da tenere d’occhio nella politica americana negli anni a venire. È un discorso che dura 17 minuti e parte dalla sua storia straordinaria personale – «Diciamolo, la mia presenza su questo palco è piuttosto improbabile» – per raccontare un’America unita da molte più cose di quelle che la dividono.

Proprio in questo momento, mentre ci parliamo, ci sono persone che si stanno preparando a dividerci, esperti di comunicazione e strategia fedeli a una sola politica, quella per cui vale tutto. Bene, voglio dire proprio a loro che non ci sono un’America progressista e un’America conservatrice; ci sono gli Stati Uniti d’America. Non ci sono un’America nera e un’America bianca, un’America latina e un’America asiatica; ci sono gli Stati Uniti d’America. Agli opinionisti piace spaccare il nostro paese in “stati rossi” e “stati blu”: gli stati rossi per i Repubblicani, gli stati blu per i Democratici. Ma ho qualche altra notizia per loro.

Crediamo in un Dio meraviglioso anche negli stati blu, e non ci piace che gli agenti federali si facciano i fatti nostri anche negli stati rossi. Alleniamo le squadre giovanili di provincia negli stati blu e sì, abbiamo amici gay negli stati rossi. Ci sono patrioti che erano contrari alla guerra in Iraq e patrioti che erano favorevoli alla guerra in Iraq. Siamo un solo popolo, fedele alla stessa bandiera e agli Stati Uniti d’America. Alla fine della fiera, su questo andremo a votare. Vogliamo partecipare a una politica basata sul cinismo, o a una basata sulla speranza? Non parlo di cieco ottimismo, quella specie di ignoranza volontaria per cui a un certo punto la disoccupazione se ne andrà da sola, o la crisi sanitaria si risolverà in ogni caso. Non parlo di questo. Parlo di cose più concrete.

È la speranza degli schiavi che cantavano per la libertà seduti attorno a un fuoco; la speranza degli immigrati che sognavano coste lontane; la speranza di un giovane marinaio che guadava coraggiosamente il Mekong; la speranza del figlio di un operaio che vuole mettere alla prova le sue possibilità; la speranza di un ragazzo magrolino con un nome strano che pensa che l’America abbia un posto anche per lui. La speranza di fronte alle difficoltà, la speranza di fronte alle incertezze, l’audacia della speranza!

Quando Obama concluse il suo discorso, e i giornalisti negli studi televisivi ripresero la linea, ci fu qualche momento di silenzio. Chris Matthews di MSNBC disse: «Devo ammettere che mi tremano un po’ le gambe. È stato un momento storico, meraviglioso. Mai sentito un discorso così». Più tardi, commentando ancora il discorso, disse: «Ho visto il primo presidente nero».

Des Moines, Iowa, 3 gennaio 2008

Quattro anni dopo, Barack Obama era candidato alle primarie del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Un po’ per la sua gioventù e inesperienza, un po’ per la grandissima popolarità e forza della sua avversaria Hillary Clinton, era considerato praticamente da tutti un tentativo interessante ma velleitario: un giro di riscaldamento, un modo per fare esperienza e farsi conoscere in vista di una successiva vera candidatura. Finché non iniziarono le primarie, come sempre in Iowa: e Obama vinse con il 37,6 per cento dei voti. Dopo la vittoria pronunciò questo discorso davanti ai suoi sostenitori festanti e increduli. La prima frase ha la cadenza e il ritmo di una poesia, ed è una delle più belle con cui si possa aprire un discorso: they said this day would never come. Il resto suona quasi profetico, letto adesso.

Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato. Dicevano che avevamo messo l’asticella troppo in alto. Dicevano che questo paese era troppo diviso, troppo disilluso per unirsi attorno a un obiettivo comune. Ma in questa notte di gennaio, in questo momento decisivo della storia, voi avete fatto quello che i cinici dicevano che non avremmo potuto fare. […] Abbiamo scelto la speranza invece della paura. Abbiamo scelto di unirci invece di dividerci, mandando così un messaggio potente a tutta l’America: il cambiamento sta arrivando. […]

Questo è stato il momento in cui è avvenuto l’improbabile, invece di quello che a Washington consideravano inevitabile. Questo è stato il momento in cui abbiamo tirato giù barriere che ci hanno diviso troppo a lungo; […] questo è stato il momento in cui abbiamo sconfitto la politica della paura, dei dubbi e del cinismo; in cui abbiamo smesso di affossarci l’un l’altro ma abbiamo deciso invece di tirare su il paese. Questo è stato il momento. Tra molti anni, ci guarderemo indietro e ci diremo che questo è stato il momento, questo è stato il posto in cui l’America si è ricordata cosa vuol dire sperare.

Un’altra tentazione facile è liquidare il significato di queste parole alla luce della vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016: e decidere quindi che, malgrado quello che disse Obama, quello non «è stato il momento». Anche questo sarebbe un errore, e non solo perché prima di usare la vittoria di Trump come una clava bisogna ricordarsi che Clinton ha ottenuto quasi tre milioni di voti in più di Trump, un margine più ampio di quello di moltissime vittorie: ma soprattutto perché un fatto non ne cancella un altro. Un giovane uomo afroamericano con un secondo nome arabo e un messaggio di unità e speranza è stato eletto alla presidenza degli Stati Uniti per due volte, contro ogni pronostico: e negli otto anni che ha trascorso alla Casa Bianca, ha ottenuto riforme, cambiamenti e risultati. Buoni o brutti, è un altro discorso: se ne può parlare. Ma è successo indubbiamente, and that was the moment.

Nashua, New Hampshire, 8 gennaio 2008

Pochi giorni dopo le primarie si spostarono in New Hampshire. Obama era dato in vantaggio nei sondaggi e aveva ricevuto un’incredibile spinta in termini di entusiasmo e fondi dopo la vittoria in Iowa. Eppure perse, a sorpresa, e a dimostrazione di quanto Hillary Clinton sarebbe stata difficile da battere. Poco dopo la sconfitta salì su un palco per parlare ai suoi sostenitori e pronunciò per la prima volta le tre parole che forse più di tutte le altre avrebbero contraddistinto la sua carriera politica. Yes we can nasce quella sera; il ritmo e le parole funzionavano così bene che pochi giorni dopo quell’intero discorso diventò una popolarissima canzone.

Sappiamo che la battaglia davanti a noi sarà lunga. Ma ricordate sempre che non importa quanti ostacoli avremo davanti: niente può fermare il potere di milioni di persone che chiedono di cambiare. Un coro di cinici ci ha detto che non possiamo farcela. E vedrete che diventeranno più rumorosi e aggressivi nelle settimane e nei mesi a venire. Ci hanno detto che dobbiamo fare un bagno di realtà. Ci hanno accusato di dare false speranze alle persone. Ma in tutta l’improbabile storia dell’America, non c’è mai stato niente di falso che avesse a che fare con la speranza. Quando abbiamo avuto davanti sfide impossibili, quando ci hanno detto che non avremmo dovuto provare o che non ce l’avremmo fatta, generazioni di americani hanno risposto con un semplice credo senza tempo, esemplare dello spirito del nostro popolo. Yes, we can. Yes, we can. Yes, we can.

È un credo scritto nei documenti che hanno fondato questa nazione e ne hanno dichiarato il destino. Yes, we can. È stato sussurrato dagli schiavi e dagli abolizionisti, mentre ci portavano verso la libertà attraverso la più scura delle notti. Yes, we can. È stato cantato dagli immigrati che arrivavano qui da coste lontane e dai pionieri che esploravano il West. Yes, we can. È stata la chiamata dei lavoratori che si sono organizzati, delle donne che hanno ottenuto il voto, del presidente che scelse la Luna come nuova frontiera, e del re che ci portò sulla montagna e ci indicò la terra promessa. Yes, we can, per la giustizia e l’uguaglianza. Yes, we can, per le opportunità e la prosperità. Sì, possiamo guarire questa nazione. Sì, possiamo riparare questo mondo. Yes, we can.

E quindi, domani, quando la nostra campagna si sposterà a sud e a ovest, impareremo che le lotte dei lavoratori tessili di Spartanburg non sono così diverse da quelle dei lavapiatti di Las Vegas. Che le speranze della bambina in una scuola diroccata di Dillon sono le stesse del ragazzino che passa le giornate per strada a Los Angeles. Ricorderemo che sta succedendo qualcosa in America, che non siamo divisi come la nostra politica ci suggerisce, che siamo un solo popolo, che siamo una sola nazione. E che insieme inizieremo a scrivere il prossimo grande capitolo della storia americana, con tre parole che risuoneranno da costa a costa, da mare a mare. Yes, we can.

Philadelphia, Pennsylvania, 18 marzo 2008

A un certo punto durante quella campagna elettorale, venne fuori che il pastore della chiesa di Chicago che Obama frequentava fin da ragazzino, che aveva celebrato il suo matrimonio e battezzato le sue figlie, e di cui Obama si considerava devoto e amico, aveva detto negli anni cose molto pesanti sull’America e sui bianchi: durante i suoi sermoni, al referendo Jeremiah Wright era capitato di dire, per esempio, «Dio maledica l’America» perché «uccide persone innocenti». Obama aveva più volte indicato Wright come la sua guida spirituale, ma stava cercando di diventare il primo presidente nero senza rivendicazioni etniche e con un messaggio positivo e unitario: alcuni lo accusarono di essere ipocrita e razzista contro i bianchi, e di avere una formazione estremista e violenta. Altri politici in un caso del genere si sarebbero limitati a condannare le parole del proprio pastore e cercare il prima possibile di spostare l’attenzione dei media e degli elettori su un’altra storia. Obama pensò che fosse il caso di usare quel momento per affrontare una volta per tutte il tema della sua candidatura in relazione alle dolorose questioni etniche della storia statunitense.

Sabato 15 marzo dettò al suo speechwriter, Jon Favreau, quello che aveva intenzione di dire. Favreau ci lavorò tutta la notte e il giorno successivo, quando mandò a Obama la sua versione del discorso. Obama ci lavorò fino alle tre del mattino della notte tra domenica e lunedì, e poi di nuovo lunedì e nelle prime ore di martedì. Poi inviò la sua bozza finale a Favreau e al suo principale consigliere, David Axelrod, che gli rispose con una riga inviata via email: «This is why you should be president». Quel discorso alto e profondo – definito istantaneamente «storico» dalla stampa americana – mise le parole di Wright nel più ampio contesto del lungo percorso con cui gli americani abbiano costruito e debbano ancora costruire «a more perfect union», come recita la Dichiarazione di indipendenza. Obama dimostrò la capacità di incarnare e descrivere una questione dolorosa e complessa, piena di sfumature («Non dimenticherò mai che non esiste un altro paese al mondo in cui la mia storia sia anche soltanto possibile»); e si tirò fuori dalla polemica di slancio, addirittura guadagnando consensi dall’intero episodio. È in quel momento che nacque un famoso detto che descrive il modo in cui Obama è solito affrontare i momenti di difficoltà: when in trouble, go big.

Non posso dissociarmi da quest’uomo più di quanto possa dissociarmi dall’intera comunità nera. E non posso dissociarmi da quest’uomo più di quanto possa dissociarmi da mia nonna, che era bianca, che mi ha cresciuto sacrificando tutto per me, che mi ama più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma una volta mi confessò di avere paura per strada quando passa davanti a un uomo afroamericano, e che più di una volta ha usato espressioni razziste o stereotipi che mi hanno fatto rabbrividire. Queste persone sono un pezzo di me. E sono un pezzo dell’America, questo paese che amo.

Alcuni penseranno che sia un tentativo di giustificare l’ingiustificabile. Vi assicuro che non è così. La cosa più sicura da fare, politicamente, sarebbe per me non parlare di questo episodio e andare oltre il prima possibile. […] Ma oggi questo paese non può permettersi di ignorare le questioni etniche. […] Le parole del reverendo Wright riflettono la complessità delle questioni etniche di questo paese, le cose che non abbiamo ancora risolto. Ma se oggi ci ritiriamo nei nostri rispettivi angoli, non le risolveremo mai. Capire questa realtà richiede un promemoria, su come siamo arrivati a questo punto.

Obama elencò allora i secoli di schiavitù, segregazioni, violenze e discriminazioni subite dai neri d’America, spiegò il profondo e legittimo risentimento che hanno creato in milioni di persone e in cui persone come il reverendo Wright erano cresciute. Ma affrontò direttamente anche le sofferenze e le insofferenze dei bianchi, in un passaggio che sembra scritto nel 2016.

Una simile rabbia esiste tra i bianchi. La gran parte della classe operaia e media bianca non pensa di essere particolarmente privilegiata dalla propria etnia. Per quel che le riguarda, nessuno le ha regalato niente. Tutto quello che hanno, se lo sono costruito da zero. Hanno lavorato duro tutta la vita, magari per vedere poi il loro posto esternalizzato o le loro pensioni svalutate. In un’era di economia stagnante e competizione globale, le opportunità sono viste come un gioco a somma zero, in cui i sogni del prossimo possono realizzarsi solo a mie spese. Quando sentono che un afroamericano ha diritto a un posto a scuola o a un incarico di lavoro al posto di un bianco per via delle norme antirazzismo, e quindi di un’ingiustizia storica che loro personalmente non hanno commesso, provano del risentimento. Questo risentimento, come quello della comunità nera, ha plasmato lo scenario politico per almeno una generazione.

Chicago, Illinois, 4 novembre 2008

La storia la conosciamo: Barack Obama vinse le elezioni presidenziali del 2008 e diventò il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti d’America. Poco dopo i risultati pronunciò un discorso a Grant Park nella sua città, Chicago, davanti a centinaia di migliaia di persone provenienti da tutta l’America e da mezzo mondo. I racconti di chi era presente sono bellissimi da leggere, ma ognuno ha la sua storia su quella notte. Poche ore prima delle elezioni, la nonna di Obama morì: lui l’aveva descritta spesso come una delle persone più care e più importanti della sua vita. Anche per questo tutta la famiglia Obama quella sera indossò qualcosa di colore nero.

Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un posto in cui tutto è possibile, che si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è ancora vivo, che ancora mette in discussione il potere della nostra democrazia, questa notte è la risposta che cercate. […] Questo è il nostro momento. Questo è il momento di rimettere al lavoro le persone e aprire opportunità per i nostri figli; di ridare prosperità e pace al mondo; di reclamare il sogno americano e riaffermare quella verità fondamentale. Che siamo tanti ma una cosa sola; che per noi sperare è come respirare. E ogni volta che sulla nostra strada incontreremo cinismo, dubbi e persone che ci dicono che non ce la faremo, risponderemo con quel credo senza tempo esemplare dello spirito del nostro popolo. Yes, we can.

Oslo, Norvegia, 10 dicembre 2009

Con una decisione che lo stesso Barack Obama ha più volte fatto capire di considerare affrettata e improvvida, meno di un anno dopo la sua elezione Obama ricevette il premio Nobel per la pace. Quando andò a ritirare il premio a Oslo, Obama spiazzò molti pronunciando un discorso sull’importanza storica della giustizia, più che della pace, e quindi anche del relativo valore della guerra.

Non ho una soluzione definitiva al problema delle guerre. […] Dobbiamo cominciare accettando una dura verità: non sradicheremo i conflitti violenti durante le nostre vite. Ci saranno volte in cui le nazioni, da sole o insieme, giudicheranno l’uso della forza non solo necessario ma moralmente giustificato. […] Che sia chiaro: il male esiste nel mondo. Un movimento non violento non avrebbe fermato l’esercito di Hitler. Negoziati e trattative non convinceranno i leader di al Qaida a posare le armi. Dire che la forza qualche volta è necessaria non vuol dire fare appello al cinismo, ma riconoscere la storia: le imperfezioni degli uomini e i limiti della ragione. […]

Il mondo deve ricordare che non sono state solo le istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni, a portare stabilità dopo la Seconda guerra mondiale. Pur con tutti gli errori che abbiamo fatto, c’è un semplice fatto: gli Stati Uniti d’America hanno contribuito alla sicurezza globale per più di sessant’anni col sangue dei nostri cittadini e la forza delle nostre armi. […] Quindi sì, gli strumenti della guerra hanno eccome un ruolo nel preservare la pace. Eppure questa verità coesiste con un’altra verità: che non importa quanto sia giustificata, la guerra è una promessa di tragedie. […] La guerra in sé non è mai gloriosa, e mai dovremmo considerarla tale. Ma la pace non è solo l’assenza di conflitti visibili. Solo una pace costruita sui diritti e la dignità di ogni essere umano può essere davvero duratura.

Chicago, Illinois, 8 novembre 2012

Due giorni dopo la sua rielezione alla presidenza degli Stati Uniti, Obama andò nella sede del suo comitato elettorale per rivolgere un breve discorso di ringraziamento ai volontari che gli avevano dato una mano. È un discorso molto breve, dura cinque minuti e parte dall’esperienza di Obama come attivista politico da ragazzo; Obama va completamente a braccio e si commuove più volte, quando finisce si allontana velocemente asciugandosi il viso.

Anche prima dei risultati dell’altra notte, sentivo che per me il cerchio si era chiuso: perché quello che voi avete fatto significa che quello che io ho fatto è importante. E sono davvero orgoglioso di questo e di tutti voi. Quello che avete fatto passerà alla storia, le persone ne leggeranno per anni. Ma la cosa più importante che dovete sapere è che il vostro viaggio è appena cominciato. Avete appena iniziato. Le cose buone che faremo nei prossimi quattro anni sono destinate a impallidire al confronto di quelle che farete voi negli anni e anni a venire.

Charleston, South Carolina, 29 giugno 2015

È uno dei discorsi pronunciati da Obama dopo una strage (anche quello di Tucson fu molto apprezzato) e uno di quelli che parlano di uguaglianza tra persone di diverse etnie (come quello di Philadelphia del 2008 ma anche quello di Selma del 2015). Questo discorso però – pronunciato nella chiesa in cui pochi giorni prima un ragazzo suprematista bianco aveva ucciso nove persone nere che stavano pregando – sarà ricordato per il momento finale in cui Obama, dal nulla, comincia a cantare Amazing Grace, e poi cita i nomi delle persone uccise.

Washington, DC, 5 gennaio 2016

Non è un vero discorso, questo, ma un passaggio di una conferenza stampa con cui presentò una serie di nuovi controlli sulla vendita e la circolazione delle armi da fuoco: il massimo che potesse fare con i poteri presidenziali e senza che fosse necessario passare dal Congresso. Col passare degli anni, i discorsi di Obama su questo tema si sono fatti meno riflessivi e più emotivi, mostrando una frustrazione crescente per l’incapacità del Congresso di risolvere un problema così grave. Obama ha detto più volte di considerare il 14 dicembre del 2012 come il giorno più brutto della sua presidenza: il giorno in cui un uomo è entrato in una scuola elementare del Connecticut e ha ucciso 20 bambini tra i 6 e i 7 anni. Qui Obama, visibilmente spazientito, a un certo punto si ferma e si commuove.

«Everytime I think about those kids, it gets me mad»

Philadelphia, Pennsylvania, 27 luglio 2016

È il primo dei due veri grandi discorsi di addio di Barack Obama: quello rivolto la scorsa estate al suo partito, durante la convention che ha dato la candidatura a Hillary Clinton. Obama ricorda che la sua carriera nazionale cominciò con un altro discorso a un’altra convention (che cita direttamente in qualche passaggio), fa un bilancio dei risultati ottenuti nel corso della sua presidenza, spiega l’importanza delle imminenti elezioni e perché secondo lui Hillary Clinton fosse la candidata migliore, e alla fine saluta e ringrazia usando una formula che sintetizza come la sua presenza abbia accompagnato e definito le vite di moltissimi attivisti ed elettori del Partito Democratico, soprattutto chi era più giovane durante la sua prima elezione.

Più volte, nel corso degli anni, voi mi avete rimesso in piedi. Spero, ogni tanto, di aver rimesso io in piedi voi. Stasera vi chiedo di fare per Hillary Clinton quello che avete fatto per me. Vi chiedo di trascinarla come avete trascinato me. Perché voi siete gli stessi di dodici anni fa, quando parlavo di speranza. Siete voi che avete alimentato la mia fiducia nel futuro, anche davanti alle difficoltà, anche quando la strada è lunga. Speranza davanti alle difficoltà, speranza davanti alle incertezze: l’audacia della speranza!

America, in questi otto anni hai indicato la speranza. Adesso io sono pronto a passare il testimone e fare la mia parte da privato cittadino. Quest’anno, in questa elezione, vi chiedo di unirvi a me e respingere il cinismo e la paura, di fare appello alle cose migliori di noi, eleggere Hillary Clinton alla presidenza degli Stati Uniti e mostrare al mondo che crediamo ancora nella promessa di questo grande paese. Grazie per questo incredibile viaggio.

Chicago, Illinois, 10 gennaio 2017

È il vero discorso di addio, quello di pochi giorni fa. È davvero un discorso che chiude il cerchio, e cita molti altri importanti discorsi della carriera di Obama.

Se otto anni fa vi avessi detto che l’America avrebbe invertito la sua grande recessione, rilanciato l’industria dell’auto e innescato il più grande periodo di creazione di posti di lavoro della nostra storia… se vi avessi detto che avremmo aperto un nuovo capitolo con il popolo cubano, fermato il programma nucleare iraniano senza sparare un colpo, e fatto fuori il regista dell’11 settembre… se vi avessi detto che avremmo ottenuto il matrimonio egualitario, e il diritto alle cure sanitarie per altri 20 milioni di nostri concittadini… avreste potuto pensare che avevamo messo l’asticella troppo in alto. Ma questo è quello che abbiamo fatto. Questo è quello che avete fatto. Voi siete stati il cambiamento. Avete risposto alle speranze delle persone e, grazie a voi, da quasi ogni punto di vista oggi l’America è migliore e più forte di quando abbiamo cominciato.

La frase sull’asticella in inglese era: «you might have said our sights were set a little too high», ed è una citazione del discorso pronunciato nel 2008 dopo la vittoria in Iowa. Poco dopo ha detto ai suoi sostenitori «voi avete cambiato il mondo», citando un’altra formula che aveva usato moltissimo durante la sua prima campagna elettorale. Infine ha chiuso così:

Cari americani, servirvi è stato il più grande onore della mia vita. Non ho intenzione di fermarmi: sarò accanto a voi, da cittadino, per tutti i giorni che mi rimangono. Per adesso, che siate giovani o giovani nel cuore, ho un’ultima richiesta per voi. La stessa di otto anni fa, quando vi chiesi di fidarvi di me. Vi chiedo di crederci: non nella mia abilità di cambiare le cose, ma nella vostra. Vi chiedo di tenere viva la fiducia nell’idea che ci hanno tramandato i nostri padri fondatori: quell’idea che parlava agli schiavi e agli abolizionisti, quello spirito che cantavano gli immigrati e gli esploratori e chi marciava per ottenere giustizia; il credo di chi ha piantato bandiere su campi di battaglia stranieri e sulla Luna; il credo al centro di ogni americano la cui storia non è ancora stata scritta. Yes, we can, Yes, we did. Yes, we can.

Questi sono davvero solo alcuni dei discorsi pronunciati da Obama che per ragioni diverse saranno ricordati e citati in futuro. Per quantità e qualità di grandi discorsi che ha pronunciato nel corso della sua carriera politica, infatti, ci sono pochi altri presidenti nella storia americana che si avvicinano al suo livello: forse solo John Fitzgerald Kennedy, Franklin Delano Roosevelt e Ronald Reagan. A questi andrebbe aggiunto anche Abraham Lincoln, autore dello strepitoso discorso di Gettysburg – esempio perfetto di discorso stilisticamente magnifico e che ha letteralmente cambiato l’America – ma del quale non abbiamo mai sentito la voce.

La voce di Barack Obama, invece, continueremo a risentirla a lungo.