editoria digitale

Miracolo Bezos per il Washington Post (che guadagna e assume)

di Enrico Marro

Jeff Bezos (Afp)

4' di lettura

La situazione era disperata quando nel 2013 i Graham gettarono la spugna, decidendo dopo ottant’anni di vendere il gioiello di famiglia, il Washington Post. La celebre testata, autrice di memorabili scoop come quello sullo scandalo Watergate, aveva chiuso l’ultimo bilancio con perdite per 53,7 milioni di dollari. Nei sei anni precedenti il fatturato del gruppo era precipitato del 44%. Una situazione insostenibile. I Graham, editori da quattro generazioni, cedettero il Washington Post a un signor nessuno dei media, uno che non aveva mai gestito un gruppo editoriale: Jeff Bezos, fondatore di Amazon. Il re dell’e-commerce mise sul piatto un assegno da 250 milioni di dollari per la storica testata, il sito internet e altri giornali del gruppo: un prezzo ridicolo per conquistare uno dei brand editoriali più prestigiosi al mondo. Ma i Graham, che temevano il peggio per il Post, cedettero. Quando Bezos entrò per la prima volta in redazione, i giornalisti gli chiesero nervosi dove volesse portare il giornale. «Sulla pista di decollo», tagliò corto l’enfant prodige del digitale. Sì, ma in che modo, chiesero angosciati i redattori?

Bezos prese il toro per le corna. Il secondo uomo più ricco del pianeta iniziò a investire pesantemente sul “Post”: 50 milioni di dollari spesi oculatamente per mettere la vecchia testata al passo coi tempi. Vennero tra l’altro assunti almeno un’ottantina di figure tecniche: programmatori, web analyst, big data analyst, web designer e video editor. Tutti piazzati nell’enorme newsroom per lavorare fianco a fianco con i giornalisti, in modo da costruire storie sempre più multimediali, in grado di catturare nuovi pubblici (con linguaggi e contenuti innovativi) e moltiplicare i contatti sulle piattaforme distributive più eterogenee. E con i contatti, gli abbonamenti. E con gli abbonamenti, la pubblicità.

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Particolare attenzione è stata posta sulla distribuzione dei contenuti. La versione mobile dei siti è stata resa ultraveloce - lavorando assieme a Google - sulla base dell’assunto che i lettori scelgono l’informazione digitale anche considerando la rapidità a essere caricata su smartphone. Il “Post” ha così conquistato un vantaggio tecnologico enorme rispetto a una concorrenza lentissima sul mobile. Non solo. Sono state lanciate 62 differenti newsletter per distribuire i contenuti, assieme a un’imponente attività social, il tutto gestito da nuove redazioni. L’iniziale diffidenza dei giornalisti è svanita quando hanno scoperto che in appena un anno di “cura Bezos” gli abbonamenti erano raddoppiati. Ora si punta molto sul video per smartphone e tablet, in grado di dare grandi soddisfazioni sul fronte advertising.

Il bello è che Bezos e Fred Ryan (ceo del Washington Post), per quanto tech, credono profondamente nel giornalismo d’inchiesta, quello di qualità. Quello scomodo, per intenderci, in grado di scavare nell’e-mailgate dei Clinton o nei finanziamenri illeciti a Trump senza paura. Il credo della nuova classe dirigente del “Post” è: giornalismo multimediale di qualità distribuito su canali digitali innovativi e redditizi dal punto di vista pubblicitario. In tutto questo è decisamente passato in secondo piano il giornale cartaceo e la sua stessa declinazione (grafica e di linguaggio).

Ad appena tre anni dall’addio dei Graham, il “Post” è tornato a macinare profitti e si prepara ad assumere una sessantina di nuovi redattori, per rafforzare la propria newsroom durante una presidenza Trump dove senza dubbio ne vedremo delle belle. Pane per i denti del giornalismo investigativo targato Washington Post. Le nuove assunzioni porteranno la redazione a quota 750 addetti, ormai in terza posizione negli Stati Uniti dopo il Wall Street Journal (1500 redattori) e il New York Times (circa 1300), con Usa Today definitivamente alle spalle (450). Ma il quotidiano della capitale può permetterselo: l’anno scorso gli abbonati sono aumentati del 75% e i profitti legati alle sottoscrizioni digitali sono raddoppiati.

Anche a livello di produttività il Post si è messo al passo coi ritmi del digitale. Secondo alcuni rumours gli attuali 700 redattori multimediali del “Post” producono il doppio di articoli dei 1300 del New York Times. Sì, perché ogni notizia viene declinata in decine di modi diversi e valorizzata dalla distribuzione su canali di ogni tipo. «Guardate alla nostra copertura mediatica della malattia di Hillary Clinton durante la campagna elettorale», spiega il direttore prodotto Joey Marburger, uno degli uomini chiave del nuovo “Post”, famoso anche per essere stato il bassista di un gruppo punk alle superiori. «C’erano gli articoli, i video, le gallery, la combinazione del tutto, le analisi, la narrativa». Uno storytelling in tempo reale declinato in mille linguaggi diversi per mille tipi di lettori differenti.

Qualche numero. Nel 2016 il Post è il secondo quotidiano statunitense per lettori, dopo il New York Times: solo tra settembre e novembre ha avuto una crescita di oltre 16 milioni di utenti unici (da 83 a oltre 99 milioni). E nel “digital game” il Post ha avuto così successo da poter vendere la licenza del proprio content management system a soggetti terzi, generando potenziali entrate da 100 milioni di dollari l’anno solo da questo canale.

Merito dell’aggressivo modello di business di Bezon e Ryan, che potremmo riassumere con “grande qualità a basso prezzo”: la vision è che una massa enorme di abbonamenti a basso costo (circa 36 dollari l’anno per l’edizione nazionale dopo una prova gratuita di sei mesi) costituirà la principale fonte di guadagno del gruppo nei prossimi anni. In stato prefallimentare con i Graham, il Washington Post dell’era Bezos è diventato un’agile Ryanair dell’editoria digitale. Dimostrando che la notizia della morte del giornalismo è fortemente esagerata.

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