martedì 23 settembre 2014
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Alfred Nobel, nel cui nome vengono assegnati ogni anno i premi dall’Accademia delle Scienze di Stoccolma , morì in solitudine il 10 dicembre 1896. Dilaniato dal timore che la sua scoperta della dinamite avrebbe potuto essere uno strumento di rovina e non di benessere per la società – era stato definito «mercante di morte» – e dal dolore per la perdita del fratello – causata proprio dalla sua scoperta – lasciò il suo patrimonio in dono per la costruzione società ideale dell’uomo. Una società che fosse in grado di realizzare i valori universali della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà. In questo senso i premi dovevano testimoniare un valore universale esteso a tutti e rappresentano un momento di grande riflessione e di alto valore morale. Nel suo testamento olografo Nobel precisava che, con il ricavato del patrimonio, ogni anno si dovesse riconoscere un premio agli studiosi che nei loro campi avessero contribuito maggiormente a creare le condizioni «del benessere» della società. Accanto alle scienze positive – Chimica, Fisica, Medicina – veniva attribuito il premio per la Letteratura a coloro che avevano prodotto «il lavoro di tendenza idealistica più notevole» e quello a cui forse teneva di più, per la Pace, assegnato «alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il migliore lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti».Le volontà di Alfred Nobel sono chiarissime, senza possibilità di false interpretazioni e funzionali a dare un equilibrio al senso della vita sospesa tra il mondo dello spirito e quello dell’esperienza. Nel tempo però queste indicazioni sembra si siano progressivamente offuscate a favore di criteri su certi premi non sempre coincidenti con i desiderata di Nobel. Fino agli anni Sessanta l’Accademia ha cercato di mantenere un difficile equilibrio in un tempo che sembrava avere distrutto ogni speranza di vita pienamente umana. Nel 1969 venne istituito il premio per l’Economia, non previsto da Nobel e finanziato dalla Banca di Svezia, tra molte controversie espresse proprio dagli studiosi di quella materia; lo stesso Von Hayek sarebbe stato indeciso fino all’ultimo se accettare o meno nel 1974 il premio. In effetti Nobel aveva previsto riconoscimenti per scienze misurabili e premi improntati alla spiritualità dei sentimenti – Letteratura e Pace – mentre l’Economia, nuova arrivata, si collocava in un campo intermedio: in quanto scienza sociale e morale non poteva essere trattata come scienza positiva e, dovendo contribuire alla realizzazione di bisogni pratici, non poteva essere studiata senza elementi di misurazione della convenienza delle scelte in presenza di bisogni scarsi.Il premio, come aveva ammonito Von Hayek, avrebbe contribuito però a modificare il Dna dell’economia, portandola solo nel mondo delle scienze esatte; il passaggio ha trasformato una scienza strumentale in scienza finalistica in grado di definire un concetto di “benessere” della società in modo completamente diverso e asimmetrico rispetto quello che pensava Alfred Nobel. Il contesto culturale creatosi ha contribuito a modificare i valori dominanti nelle società e ad accelerare un processo di progressiva decadenza culturale che trova radici lontane nel tempo, proprio nel campo della speculazione. Dalla fine degli anni Sessanta del Novecento alla consegna dei premi per la Letteratura, l’Economia e la Pace – quelli in cui sono più palesi le contraddizioni – le anomalie sono diventate evidenti, assecondando un modello culturale e i suoi interessi che hanno portato alla vera crisi del nostro tempo: quella antropologica, che troppi continuano a non volere vedere.Dal 1969 a oggi gli statunitensi hanno fatto la parte del leone: nei quarantaquattro anni di assegnazione dei Nobel per l’Economia hanno conseguito, uno o più di uno di loro, per quarantun volte il premio. Una monocultura senza contraddittorio. Solo in tre anni non hanno vinto (1969, 1974 e 1988) e la tendenza si è accentuata dopo la caduta del Muro di Berlino, quando i premi sono piovuti sugli studiosi di finanza che definivano i mercati finanziari razionali ed esatti senza possibilità di errore. La finanza è diventata una sorta di arma egemone al di sopra degli Stati, in grado di esercitare pressione sulle politiche delle singole nazioni e sulle scelte globali. È stata creata – come su queste colonne si è spesso ricordato – «una ricchezza senza Stati e Stati senza ricchezza» e imposto un modello di società individualista e conflittuale, in cui il senso morale è asservito all’interesse personale e il più forte “comanda”. Si è instaurato un sistema di relazioni tossiche tra politica, finanza e accademia che nel 2008 è infine esploso. Davvero si può pensare che l’anima di questo modello culturale sia in grado di ispirare sentimenti come la bontà, l’altruismo, la solidarietà, il rispetto dell’umano – insomma, quella spinta ideale voluta da Alfred Nobel?La risposta la troviamo nei premi assegnati alla Letteratura con un’evidenza disarmante: infatti dalla fine degli anni Sessanta gli Usa, che sembravano onnipotenti, non hanno vinto nella sostanza alcun vero premio per la Letteratura. Toni Morrison (1994) esprimeva il dolore razziale delle minoranze, ora maggioranze, di colore; Saul Bellow (1976) e Isaac B. Singer (1978) erano espressione della cultura dell’Europa, dove avevano vissuto a lungo prima di trasferirsi negli Usa. Gli altri premi in questi anni sono spesso andati Paesi diversi, in cui quel tipo di “benessere” espresso dall’economia era assente o comunque non rilevante come negli Stati Uniti: Irlanda, Perù, Cile, Santa Lucia, Polonia, Romania, Grecia... I due modelli culturali si oppongono senza possibilità di dialogo e di condivisione, perché gli interessi dell’economia e della finanza mettono al primo posto la massimizzazione dell’interesse personale, esattamente quello che Nobel voleva scongiurare. La legittimazione del pensiero unico ha soffocato l’immaginazione e spento i valori universali; per dirla con Pascal, l’esprit de finesse si è definitivamente separato dall’esprit de géométrie, ma l’uomo razionale è arrivato alla fine della corsa.Inoltre dal 2002 al 2009 gli stessi Usa hanno vinto tre premi per la Pace – Jimmy Carter, Al Gore e Barack Obama – pur avendo l’esercito più numeroso, armato e potente al mondo e la metà delle spese belliche mondiali e aziende nel settore (che dal 27,7% di quota di mercato del 2003 sono passate ad avere quasi l’80%); inoltre hanno il più elevato numero di morti per arma da fuoco, di diffusione di armi, di suicidi e disturbi mentali. Un modello culturale che ha assunto una dimensione globale, dilagando anche negli altri Paesi per imitazione o per opposizione. È questo il modello di società che Nobel nel suo testamento intendeva contribuire a creare? Una società dove il vero olocausto sembra essere quello dei sentimenti che dovrebbero fare dell’uomo un essere che aspira a una spiritualità superiore, ma che sembrano oggi soccombere a una guerra di tutti contro tutti. La storia recente ci ha abituato a sopportare tutto in una «comoda illibertà», avrebbe detto Günther Anders, e a vedere come normali i crimini contro l’umanità.Papa Francesco in suo recente discorso in Corea ha esortato a dire la verità e a provare a domandarci cosa sia, come fa Pilato rivolto a Gesù. Ma noi siamo in grado di farlo? Di fare un esame di coscienza per provare a rispondere al senso della nostra vita? Di sopportare il dolore e la paura di scoprire che forse ci siamo sbagliati? Di riscoprire il valore del pensiero e provare a rispondere alle domande che ci fa la Storia prima che sia troppo tardi? Alfred Nobel avrebbe voluto aiutarci a trovare le tracce nelle risposte elaborate da spiriti grandi. La fatica tocca ancora, e prima di tutto, a ognuno di noi.
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