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E sulla fuga dei cervelli Matteo spiazza tutti: "Serve anche a noi"

Il premier nella Silicon Valley e una visione non ingenua del problema di chi va all'estero di FEDERICO RAMPINI 

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"NON vi chiedo di tornare a casa ma di andare avanti e lavorare per cambiare il mondo". Matteo Renzi ha spiazzato chi si aspettava che lanciasse l'ennesimo piano di incentivi per il rientro dei cervelli italiani fuggiti all'estero. Nella visita a San Francisco e alla vicina Silicon Valley, incontrando un centinaio fra imprenditori e ricercatori italiani, il premier ha preso atto che il loro ritorno a casa è un evento raro. E forse nemmeno auspicabile: non per tutti, non come obiettivo strategico. La fuga dei cervelli fa bene anche a noi? In un certo senso sì. Le testimonianze che ho raccolto alla vigilia della visita di Renzi, e ho già pubblicato su questo sito, offrono una visione matura, non ingenua, sul fenomeno della fuga dei cervelli. Per cominciare: ricordiamoci che fuggono perfino dalla Cina o dalla Germania. La capacità di attrazione della Silicon Valley è davvero ineguagliata. Loro stessi, i nostri connazionali "californizzati", che siano scienziati oppure imprenditori, spesso sottolineano che l'Italia non deve considerarli "perduti".
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E' ampia la casistica di start-up che si fanno le ossa a San Francisco, raccolgono venture capital in California, si cimentano col mercato più competitivo del mondo, ma poi reinvestono e assumono anche in Italia. Nulla di male, dunque, se i nostri talenti vanno a fare queste immersioni in un luogo creativo, innovativo, e selettivo. Ne emergeranno più forti di prima. Il problema non è tanto quello di farli tornare. Semmai bisogna capire perché troppi italiani partono "con biglietto di sola andata", cosa non altrettanto vera per cinesi e indiani, una parte dei quali tornano stabilmente, a creare imprese nel proprio paese. E' la mobilità a senso unico, il male italiano.

Del resto, come osservano i nostri cervelli nella Silicon Valley, perché l'Italia non fa di più per attirare sul proprio territorio un contro-esodo fatto di giovani talenti dall'Asia, dall'Europa dell'Est, dall'America latina? E anziché inseguire un irraggiungibile modello californiano, perché non studiamo meglio Israele, piccola nazione che ha fatto balzi da gigante nell'innovazione tecnologica? Su un punto dolente, gli italiani che eccellono nella Silicon Valley sono tutti concordi: la meritocrazia assente. Tanti, troppi se ne sono andati dall'Italia perché nauseati dal vecchio vizio delle raccomandazioni, dei nepotismi, delle clientele, delle mafie e dei clan. Le baronie universitarie sono sotto accusa più che mai. Qualche ateneo italiano sembra aver fatto dei progressi, sia nello spezzare le vecchie logiche di potere sia nel reclutamento di docenti dall'estero (un segnale di meritocrazia chiaro). Bisognerebbe dare più visibilità e notorietà a queste eccezioni positive, in modo che scatti un meccanismo di competizione-emulazione. E il male delle clientele e dei nepotismi non dipende solo da un presidente del Consiglio: i primi responsabili sono quelli che ci campano, inclusi i giovani italiani che non partono per la Silicon Valley perché un babbo o uno zio potente gli ha già trovato il posto vicino a casa.

Un'ultima notazione sulle donne, numerose nella platea che ha accolto Renzi a San Francisco e alla Stanford University. Tra le eccellenze che si sentono escluse dai meccanismi di cooptazione italiani, la componente femminile è molto importante. Essere giovane donna, imprenditrice o ricercatrice, è più facile sulla West Coast, decisamente.


 
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