Scuola: le 10 cose che Renzi e Giannini dovrebbero fare subito

Dalla formazione dei docenti al digitale e all'edilizia scolastica ecco cosa c'è da fare. Perché la scuola è il vero motore dell'innovazione e della crescita di ogni paese

(Foto: LaPresse)
(Foto: LaPresse)

In visita alle scuole in giro per l’Italia, una ogni mercoledì. Matteo Renzi, neo premier, e la ministra dell’Istruzione, la glottologa Stefania Giannini, hanno inaugurato così l’attività del nuovo governo, partendo da una scuola media di Treviso (nella foto un momento di contestazione). Dalla scuola infatti, come ha ripetuto più volte Renzi nei suoi discorsi in senato e alla camera nei giorni scorsi, è necessario ripartire per rimettere in piedi un paese impaludato e affaticato come non mai.

Se non vogliamo rimanere ancora una volta fermi al via, i passi concreti da fare sono tanti. In molte direzioni. Questo è un primo elenco di dieci azioni che Wired propone come memo per il ministro Giannini e il suo staff. Con la promessa di seguirla in questo percorso raccontando puntualmente come, e se e in quale direzione, cambierà la scuola italiana sotto questo governo.

Alcune idee vengono dall’analisi del gruppo di lavoro Ocse-Pisa svolta in occasione della pubblicazione a inizio dicembre 2013 degli ultimi risultati, discussi anche qui su Wired.

Astenersi conservatori e nostalgici. La scuola deve cambiare, per stare al passo con il mondo. In un paese che sembra talvolta continuare a credere in un sistema di pensiero e pratiche cristallizzato nel tempo come la protagonista del bellissimo Good Bye, Lenin e fa fatica ad accorgersi che nel resto del mondo gli studenti sono preparati ad affrontare le nuove professioni e le opportunità offerte dalla società della conoscenza, non c’è davvero più spazio per i cori e i lamenti. È necessario muoversi, e in fretta.

1. Aumentare la scolarizzazione

Partiamo da un dato: l’Italia è uno dei paesi in fondo alla scaletta delle competenze degli adulti. Quasi un giovane su quattro, tra i 18 e i 24 anni, nel nostro paese ha solo un titolo di scuola media inferiore. Ma c’è di più: solo il 17% degli adulti tra i 35 e i 44 anni nel nostro paese è laureato, contro la media Ocse del 34%. E gli adulti italiani risultano i peggiori nei test di lettura e di matematica dell’Ocse. I nostri 15enni, dunque, hanno in media famiglie molto meno istruite di quelle degli altri paesi. Una popolazione così poco scolarizzata difficilmente investe in formazione, innovazione e sviluppo. Lottare contro l’abbandono scolastico è dunque la prima e più urgente misura da intraprendere, consolidando l’affezione alla scuola e l’adesione ai percorsi formativi da parte dei ragazzi. Gli studenti italiani sono tra quelli che bigiano di più le ore di scuola: dopo di noi solo Argentina, Giordania e Turchia. Quasi la metà degli alunni campionati dall’Ocse ha perso almeno un giorno di scuola nelle due settimane prima del test Pisa. Negli altri paesi le assenze sono molto più ridotte. Ma anche il dato di soddisfazione lascia a bocca aperta: solo uno su 3 degli studenti italiani dichiara di trovare a scuola un ambiente ideale. La media Ocse è del 61%, cioé di 2 studenti su 3.

2. Formare i formatori

L’Italia è in grave ritardo nella cultura scientifica e tecnologica così come nella literacy, la capacità di leggere. Un ritardo di cui il ministro Giannini era assai consapevole già più di un anno fa, nel gennaio 2013, quando ha risposto assieme al giuslavorista Pietro Ichino, candidato con lei alle politiche dentro la lista Con Monti per l’Italia, alle 10 domande poste dal Gruppo 2003 per la ricerca. L’idea della Giannini, rinforzata dalle interviste rilasciate in questi giorni dopo la nomina, sarebbe quella di differenziare “le retribuzioni degli insegnanti in base al merito e alle condizioni del mercato del lavoro rilevante per ciascuna specifica disciplina, al fine di attrarre alla carriera docente i migliori laureati nelle materie scientifiche”. Ichino e Giannini sono infatti convinti che solo “i migliori laureati possono trasferire alle future generazioni la passione per la scienza e la ricerca”.

C’è un bias in questo ragionamento? Forse sì. Essere i migliori laureati, in qualsiasi ambito, non significa affatto avere poi la competenza didattica, la passione pedagogica, la capacità di ascolto, la pazienza (molta pazienza) e gli strumenti adeguati per rispondere alle richieste formative degli studenti. Investire in formazione continua dei docenti, questo sì farebbe la differenza. Non con l’ennesimo corso di aggiornamento strutturato solo per assolvere a obblighi sindacali da enti formatori sempre più burocratizzati. Bensì dando incentivi anche economici agli insegnanti che continuano a formarsi negli anni e spendono questa competenza in classe. Un sistema di premio e incentivo oggi presente solo in misura molto limitata.

3. Valutare i docenti (e poi pagarli meglio)

Qualsiasi progetto, attività di ricerca o investimento culturale deve essere valutato non tanto per stilare delle classifiche ma per capire cosa ha funzionato e cosa necessiti di miglioramenti. La scuola, che si regge su un sistema di valutazione continua degli studenti, non può fare eccezione. Solo attraverso una valutazione continua dei docenti, vincolata all’attività didattica svolta quotidianamente nelle scuole e non ridotta alla somministrazione di super test una volta ogni dieci anni, possiamo individuare i punti critici. E’ necessario valutare gli esiti, la continuità di impegno, e anche il rapporto degli insegnanti con le classi e gli studenti. Le esperienze di valutazione da parte degli studenti sui programmi e le proposte didattiche della scuola non sono una novità: dal 2003 al 2013 è raddoppiato il numero di studenti partecipanti ai test Pisa che hanno dato feedback sulla propria scuola in risposta alle richieste dei dirigenti. Ma ancora è quasi del tutto assente la valutazione diretta dei docenti da parte degli studenti: nel 2012 solo il 30% degli studenti italiani esprime un giudizio diretto sui propri insegnanti contro il 50% della media Ocse. Il nostro è il dato più basso dopo il Giappone. La valutazione complessiva del lavoro svolto dovrebbe poi tradursi anche in un miglioramento dei salari dei docenti: oggi gli insegnanti italiani sono tra quelli che guadagnano meno in confronto ad altri paesi Ocse e G20.

4. Aumentare gli investimenti. Con attenzione

L’Italia è uno dei pochi paesi che ha addirittura diminuito gli investimenti in scuola: la spesa cumulativa per studente nel corso della carriera scolastica obbligatoria (6-15 anni) è stata tagliata dell’8% tra il 2001 e il 2010. Oltre a noi solo Islanda e Messico hanno speso meno. Ma attenzione: la spesa per studente non è un fattore che incide direttamente sui risultati. Ad esempio, Italia e Singapore hanno una spesa equivalente (circa 62mila euro per studente) ma Singapore è ai vertici della classifica della competenza matematica, ben lontano da noi. Al contrario, Italia e Norvegia hanno risultati comparabili ma la Norvegia investe più di 90mila euro per studente. Il Messico poi è il paese in cui più sono migliorate le performance pur con una spesa ridotta. Il punto è che dipende da dove vengono investiti questi soldi: ambiente educativo, strumenti, strutture, costi fissi… Già a metà anni ’90 un gruppo di lavoro ministeriale sulla cultura scientifica aveva individuato nell’assenza di laboratori scientifici e tecnici in molte scuole italiane uno dei problemi base per l’insegnamento delle scienze, tuttora principalmente teorico e non inquiry-based, cioè non basato sulla formulazione di domande, ipotesi e sullo svolgimento di esperimenti e ricerche come raccomandato dalle linee guida di molti progetti europei. Così come è evidente che insegnare una lingua straniera, come l’inglese, utilizzando docenti non madrelingua, formati con corsi brevi di poche ore, dà scarsi risultati quando non produce veri e propri danni.

5. Introdurre l’educazione digitale a scuola

Se ne è discusso molto nelle scorse settimane anche a seguito di un intervento dell’ex ministro Carrozza a sfavore di una specifica formazione digitale a scuola a margine del convegno romano Educare alla rete. Ora, la neo ministra Giannini ha dichiarato al Corriere della sera che la digitalizzazione, intesa soprattutto come passaggio all’uso di tecnologia per insegnare e studiare, è importante perché collega la scuola al mondo ma “deve esserci anche un contatto con la dimensione cartacea della cultura”. Qui il malinteso rischia di essere duplice: promuovere un’idea di scuola 2.0, con una forte spinta alla digitalizzazione, non significa eliminare i libri. Ma, soprattutto, non significa semplicemente adottare una tecnologia. Educare al digitale presuppone un lavoro da fare prima di tutto con gli insegnanti e poi con gli studenti, nelle classi, per un uso consapevole della rete, per una gestione adeguata dell’identità digitale di ciascuno. Una cultura profonda del digitale non significa saper usare velocemente i vari strumenti, come i nativi digitali fanno quotidianamente. Significa, come ben ricorda Fabio Chiusi qui su Wired, avere chiare le opportunità ma anche i rischi, in termini di privacy, gestione delle informazioni, “dinamiche sociali, economiche e individuali che si generano a partire dall’uso di tanti strumenti”. Oggi assistiamo spesso a un uso ancora molto ingenuo, poco adeguato e senz’altro, in qualche caso, perfino dannoso degli strumenti di rete anche da parte delle stesse scuole, oltre che dei singoli studenti e insegnanti.

6. Rendere più responsabili (e autonomi) i dirigenti

Nonostante la tanto decantata autonomia scolastica, sono pochissime le scuole italiane che possono e riescono di fatto a gestire risorse economiche. Nei paesi Ocse, sette studenti su dieci frequentano scuole in cui solo autorità regionali e/o nazionali stabiliscono come gestire le risorse e come pagare i docenti. In Italia, questo numero sale: il 93% degli studenti frequenta scuole pubbliche sottoposte a questo sistema di gestione. Ma la vera differenza sta nel grado di autonomia dei dirigenti: nei paesi Ocse il 25% degli studenti, uno su quattro, frequenta una scuola in cui il dirigente ha autonomia molto limitata nel selezionare e assumere i docenti e nel gestire il budget scolastico. In Italia, questo dato è molto diverso: nel 90% dei casi le scuole sono organizzate così. Di fatto, dunque, solo un dirigente su dieci ha un buon grado di autonomia e non può quindi, per esempio, offrire incentivi a un docente per rimanere nelle scuole che si trovano in zone svantaggiate sotto il profilo socio-economico. Il dato è ancora più esplicito quando pensiamo al licenziamento di un docente: quattro studenti su cinque in Italia frequentano scuole in cui è praticamente impossibile licenziare un docente, anche quando non svolge correttamente il proprio lavoro. Nei paesi Ocse questo è vero solo per due studenti su cinque.

7. Ridistribuire le risorse, rafforzando le scuole nelle zone più disagiate

Contrariamente a quanto pensano molti dei difensori della scuola all’italiana, le nostre scuole non sono affatto eque e non danno le stesse opportunità formative agli studenti. Come ben sanno le famiglie degli studenti, d’altro canto. Sono i paesi con le migliori performance scolastiche, come la Finlandia o la Germania, che tendono a distribuire in modo più equo le risorse educative tra le scuole. In Italia, oggi, le scuole con una popolazione scolastica più svantaggiata sono anche, in media, quelle con minori risorse per lavorare. Non tanto perché manchino gli insegnanti ma perché spesso i migliori insegnanti scelgono scuole meno problematiche, non avendo alcun incentivo a lavorare in contesti più difficili. Il risultato è che la variazione tra scuole, e tra regioni, in Italia è molto più marcata che negli altri paesi. E’ molto più probabile che studenti che frequentano scuole diverse possano ottenere esiti molto diversi. Un dato che non è cambiato negli anni: la forbice, anzi, si è allargata, sia tra le regioni che all’interno delle stesse città, tra quartieri periferici disagiati e zone più residenziali.

8. Migliorare gli edifici scolastici e renderli luoghi più sicuri

Ne ha parlato molto Matteo Renzi nei giorni scorsi. Non possiamo che esserne contenti: questo è un cavallo di battaglia di Wired. Nel 2012, dopo il terremoto dell’Emilia-Romagna, abbiamo avviato la campagna #scuolesicure per disegnare la mappa delle scuole italiane completa delle informazioni sulla sicurezza sismica, risultato di verifiche che avrebbero dovuto essere fatte su tutte le scuole dal 2003 in poi. E invece, dopo un lungo lavoro di inchiesta riassunto nello storify di Guido Romeo, siamo giunti a un risultato sconfortante: la nostra è infatti una mappa dell’ignoranza, perché abbiamo potuto raccogliere informazioni dettagliate solo su poche migliaia di scuole. Dai documenti disponibili risulta infatti che a fine 2012 erano meno di 3000 (su oltre 42mila) le scuole italiane verificate. Di tutte le altre non ci è stato dato sapere nulla. Per questo chiediamo alla ministra Giannini di attivarsi subito, in risposta non solo alle nostre richieste ma anche a quelle delle associazioni come Cittadinanzattiva e Legambiente nonché dei tanti comitati sparsi in giro per l’Italia, per rendere pubblici, aperti e riutilizzabili, tutti i dati, scuola per scuola, relativi allo stato degli edifici, la vulnerabilità sismica e quella strutturale e non strutturale.

9. Devolvere l’8 per mille alle scuole

A fine gennaio, l’ex ministro Carrozza si è dichiarata favorevole, nel corso di alcune interviste, ad accettare la proposta della senatrice PD Mariangela Bastico di destinare l’8 per mille all’edilizia scolastica. Una proposta da tempo sostenuta anche da varie associazioni della società civile. La Carrozza si era spinta oltre, sostenendo l’utilità di forme di defiscalizzazione che potrebbero incentivare investimenti privati nell’edilizia scolastica, pur sottolineando l’importanza del ruolo prioritario del pubblico in questo campo. Secondo quanto citato da Carrozza, il decreto Istruzione prevedeva un mutuo dello Stato di oltre 800 milioni presso la Banca di sviluppo europeo per permettere una operazione massiccia di ristrutturazione delle scuole italiane nel prossimo triennio. Quante e quali naturalmente resta da definire. Ma resta anche da chiarire se questa cifra è confermata, se questo progetto andrà avanti. Le dichiarazioni in favore di interventi sull’edilizia scolastica del premier Renzi sono state molto esplicite. Rimane ora da vedere se si tradurranno in pratica con progetti e cantieri.

10. La sfida: una scuola post-industriale e non standardizzata

Ken Robinson, uno dei pedagogisti più famosi al mondo, ha presentato tre anni fa alla Royal Society per il sostegno delle Arti una conferenza dal titolo «Changing paradigms». Tra i tanti spunti provocatori del discorso di Robinson, che vi proponiamo nella versione riassunta e disegnata dal team della RSA, il nodo centrale è che una scuola organizzata ancora in classi di età e vere e proprie ‘partite di studenti’ come se fossero merci prodotte in una azienda, non conduce alla valorizzazione della creatività dei singoli e non consente l’espressione di capacità, competenze e attitudini che potrebbero arricchire la collettività, anche dentro la scuola. Un principio che in parte è già attuato nelle cosiddette classi eterogenee delle scuole materne. Ma che è in forte contraddizione con l’idea di un raggiungimento di obiettivi standard e una valutazione della conoscenza su modelli e test uguali per tutti.

Una scuola, insomma, che stimola un pensiero creativo e una capacità individuale e collettiva di risoluzione dei problemi è necessaria per produrre i professionisti che dovranno domani innovare, sviluppare, costruire una società sempre più colta e creativa. Nelle scorse settimane, per esempio, è circolata su molti media internazionali la storia di un insegnante messicano, Juarez Correa, che utilizzando un metodo rivoluzionario nell’insegnamento della matematica ha ottenuto risultati davvero sorprendenti con una classe di ragazzini in un quartiere molto povero di Matamoros, una cittadina vicino al confine con gli Stati Uniti.

Una sfida, quella del combinare la valorizzazione delle creatività e competenze individuali con la possibilità di una valutazione efficace e soddisfacente che rappresenta il vero nodo da risolvere nella scuola di oggi. Al di là degli strumenti, dei muri, dei libri e delle retribuzioni dei docenti.

Uno sguardo nuovo sulla scuola oggi è necessario. Vedremo se fin dalle prime mosse il Ministro Giannini andrà in questa direzione.

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