Milano, 11 giugno 2016 - 23:27

Pensioni, lavoro e Irpef, quanto costano le riforme: «Mancano sette miliardi»

Misure su pensioni, lavoro e Irpef: servono 7 miliardi. Solo l’estensione ai pensionati del bonus da 80 euro costerà 2,3 miliardi. Altri 11 miliardi necessari per portare il deficit all’1,8 per cento

Matteo Renzi con Pier Carlo Padoan Matteo Renzi con Pier Carlo Padoan
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Matteo Renzi ha deciso di celebrare giovedì prossimo in cento città italiane una seconda festa della liberazione. Questa volta, meno idealisticamente, dall’Imu: l’imposta sulla prima casa che si pagava il 16 giugno di ogni anno, prima che il governo la abolisse. Se nel futuro immediato la linea del premier sulle tasse è dunque chiara, nei prossimi mesi appare costretta entro un imbuto di impegni europei e scadenze politiche nel quale finirà per accumularsi un gran numero di progetti.

In ottobre è previsto il referendum costituzionale, mentre entro metà di quello stesso mese il governo deve mandare a Bruxelles la sua proposta di legge di Stabilità. Quest’ultima, in base agli accordi appena conclusi dall’Italia con la Commissione europea, dovrebbe contenere una correzione netta del bilancio in senso restrittivo da 11 miliardi circa, in modo da poter centrare un deficit all’1,8% del prodotto lordo (Pil) nel 2017. Eppure i progetti che il premier o il governo hanno già prospettato — dalla flessibilità in uscita sulle pensioni a un taglio anticipato dell’imposta sulle persone fisiche — costano almeno 7,5 miliardi di deficit in più che non sono ancora stati contabilizzati; finirebbero dunque per pesare sul disavanzo. Tutto questo, naturalmente, senza contare altri oneri da almeno due miliardi dovuti al rifinanziamento delle missioni all’estero, alla revisione del contratto degli statali e all’estensione del bonus da 80 euro alle forze dell’ordine (già concessa ma per ora non finanziata).

I prossimi mesi imporranno dunque a Renzi scelte precise su chi scontentare e chi no, a Bruxelles e nel tessuto della società italiana; su cosa rinviare e come farlo; e su come conciliare il calendario del bilancio con quello del referendum. È sempre più plausibile infatti che quest’ultimo finisca per essere convocato il 2 o il 9 ottobre – anziché il 16, come pareva inizialmente – proprio per evitare che il passaggio dalle urne arrivi giusto all’indomani del varo di una legge di Stabilità così complessa.

Vediamo tutto quello che è sui tavoli di Palazzo Chigi. Renzi ha detto più volte che occorre intervenire sulle pensioni basse. Ma estendere il bonus da 80 euro da 10 milioni lavoratori dipendenti a circa 2,3 milioni di anziani con un reddito da pensione inferiore al minimo di legge (501,89 euro al mese, nel 2016) costa 2,3 miliardi l’anno. Sempre in materia previdenziale, il premier ha lanciato l’idea dell’Ape: l’anticipo di pensione per consentire dal 2017, su base volontaria, di lasciare il lavoro fino a tre anni prima dei requisiti previsti dalla riforma Fornero (oggi 66 anni e 7 mesi per la pensione di vecchiaia). Questa ipotesi – peraltro da negoziare con i sindacati, che chiedono molto di più – comporta maggiore spesa per 600-700 milioni solo nel primo anno. Avrebbe il vantaggio di non destrutturare la legge Fornero ma, viste le penalizzazioni sulla pensione, rischia di risultare appetibile solo per fasce marginali di lavoratori soprattutto nelle aziende in crisi.

C’è poi la legge delega sulla povertà, che deve essere approvata dal Parlamento. L’impianto prevede un primo sostegno universale per le famiglie più indigenti con figli minori, ma il miliardo di spesa previsto per il 2017 è assolutamente insufficiente rispetto alle dimensioni del problema. Oggi sono 4,1 milioni le persone in condizioni di povertà assoluta secondo la definizione dell’Istat: quelle che non possono permettersi spese essenziali come il riscaldamento o un numero sufficiente di pasti nella settimana. Renzi e Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, hanno promesso che faranno di più. In proposito si ipotizza una maggior spesa di 500 milioni: un’ipotesi di minima che potrebbe non bastare se il governo decidesse di far salire oltre gli 8 mila euro la soglia di reddito entro la quale nessuna tassa è dovuta («no tax area»).

Fin qui gli interventi a favore di chi è in condizioni di maggior bisogno. Il governo ha poi fatto circolare anche altri progetti. Il più importante riguarda l’ipotesi di anticipare al 2017 l’alleggerimento del prelievo Irpef sul ceto medio, previsto per il 2018. In particolare si tratterebbe di ridisegnare la curva delle aliquote, attenuando lo sbalzo molto brusco fra le aliquote intermedie del 27% (per i redditi tra 15 mila e 28 mila euro) e del 38% (per i redditi fra 28 mila e 55 mila euro). Questa è una delle fasce fiscalmente più spremute: pur rappresentando solo il 15% circa dei contribuenti, pesa per ben un terzo di tutto il gettito dell’Irpef. Non sarebbe un’operazione a basso costo. Per esempio ridurre l’aliquota del 38% al 35% comporta circa 1,5 miliardi di minor gettito l’anno, anche se potrebbe ridare fiducia alla parte più tartassata del ceto produttivo. E questo è un obiettivo che il premier ha sottolineato più volte. Un costo elevato per la finanza pubblica lo avrebbe infine anche il taglio strutturale del cuneo fiscale, di cui pure si discute tra Palazzo Chigi e il ministero del Lavoro. Un punto percentuale in meno di contributi in meno sui soli lavoratori dipendenti privati peserebbe sui conti pubblici per circa 2,5 miliardi di euro.

In sostanza, per sfornare tutti i progetti avviati e evocati da Renzi o dai suoi collaboratori più stretti servono 7-8 miliardi di euro l’anno. E questo prima ancora di finanziare nel 2017 l’adeguamento dei contratti degli statali, le missioni all’estero e i bonus da 80 euro per le forze dell’ordine. Sembra decisamente troppo per un governo che ancora deve decidere come trovare 11 miliardi per rispettare l’accordo appena concluso con la Commissione Ue per un deficit all’1,8% l’anno prossimo. In teoria sarebbero dovute venire da aumenti automatici dell’Iva già previsti per legge, ma Renzi ha detto chiaramente che non scatteranno.

Il governo dovrà fare delle scelte. Nello staff di Renzi si succedono le simulazioni su come distribuire tutte le idee del premier nell’arco di due manovre, quella per il 2017 e quella per il 2018 (sempre che, ovviamente, l’esecutivo superi l’esame del referendum costituzionale e la legislatura arrivi al termine naturale tra due anni). Due i principali scenari ipotizzati. Il primo e forse più plausibile prevede un percorso più prudente nel 2017 e a maggiore impatto nel 2018, anche in vista delle elezioni politiche. Per l’anno prossimo, oltre al taglio dell’imposta regionale sulle imprese dal 27,5 al 24% (già coperto) e alle altre misure per le piccole e medie aziende (Il decreto “Finanza per la crescita 2” sarà presto varato dal Consiglio dei ministri, al costo di 150 milioni), ci sarebbero le misure sulla flessibilità nell’età della pensione e il semplice décalage degli sgravi contributivi temporanei sulle assunzioni a tempo indeterminato (quelle fatte nel 2017 godrebbero dello sconto massimo di 3.250 euro per 12 mesi, con un costo di un centinaio di milioni). Questa sarebbe una manovra limitata, il cui impatto sul deficit non supererebbe il miliardo. Poi nel 2018 si farebbe il resto, magari impegnandosi per legge subito al taglio delle aliquote Irpef nell’anno dopo e sperando che una vera ripresa dia finalmente al governo più margine di manovra.

Alla fine deciderà Renzi e sicuramente il premier ha preso in esame anche un secondo scenario. Quello più audace: anticipare al 2017 il taglio all’Irpef per i ceti medi. In (piccola) parte potrebbe essere finanziato da una risistemazione del bonus degli 80 euro dopo che 1,4 milioni di persone hanno dovuto restituirlo. La revisione della struttura del bonus dovrebbe permettere di distribuire meglio le risorse in proporzione al reddito familiare. Oggi in una famiglia in cui marito e moglie guadagnano 26 mila euro lordi l’anno ha un bonus per 160 euro netti al mese, mentre una famiglia con un solo reddito da 28.500 euro non riceve niente. Certo intervenire sull’Irpef e magari sul cuneo fiscale nel 2017 significa spingere il deficit verso il 2,3% o 2,4% del Pil nel 2017. Già solo lo scenario «prudente» lo porta verso il 2% e forse oltre, ben più di quanto concordato con Bruxelles. Nella Commissione l’ultima trattativa con l’Italia sulla «flessibilità» dei conti (cioè, su un maggiore disavanzo) ha lasciato cicatrici ancora fresche. Andarle a toccare può produrre reazioni imprevedibili.

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