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I due mondi del lavoro e quella sensazione di ingiustizia

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L'Editoriale|l’editoriale

I due mondi del lavoro e quella sensazione di ingiustizia

Come sempre ci saranno mille motivi giuridici per considerare che l’articolo 18 vecchia maniera resti baluardo non scalfito per il vasto mondo del pubblico impiego.
Tuttavia nella giurisprudenza del buon senso resta quella sensazione di ingiustizia che si avverte nel percepire che l’Italia si ostina a mantenere uno steccato invalicabile tra due mondi del lavoro: quello iper protetto di chi lavora dove non esiste la concorrenza, dove non è chiaro come misurare la produttività, dove l’occupazione resta una variabile indipendente così come la retribuzione; e quello che paga ogni giorno la necessità della competizione globale, il prezzo dell’equilibrio (difficile) tra occupazione e salari, il prezzo dello squilibrio nel costo del lavoro pagato dall’imprenditore e la retribuzione netta percepita dal lavoratore. Quello dove imprese e lavoratori si autotassano per alimentar un fondo per gli ammortizzatori sociali e quello dove il tema non è nemmeno preso in considerazione. Quello dove timbrare un cartellino e poi andare al mare è ancora nel novero delle cose possibili e quello dove le regole sono ferree e valgono per tutti, fino al licenziamento, come garanzie di efficienza e di par condicio tra dipendenti.

È una distinzione bizantina e socialmente ingiusta: nel pubblico impiego lo “scambio” tra salari mediamente più bassi e sicurezza del posto di lavoro – tradizionalmente accreditato da chi ha costruito quei muri invalicabili – non è neppure più vero perché comunque i livelli salariali tra pubblico e privato sono sostanzialmente livellati. Se il Paese deve recuperare produttività nel suo complesso deve farlo anche a partire dall’abbattimento di quel dazio implicito che sono le guarentigie a presidio dell’impiego pubblico. Il lavoro è uno solo, sempre. Va fatto bene e al meglio: questo è l’unico principio che dovrebbe guidare chi fa le regole e chi le deve applicare.

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