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  • Martedì 19 gennaio 2016

L’inizio dei libri

Le prime frasi dei romanzi sono un oggetto letterario interessante e con moltissimi appassionati: storie, stili ed esempi famosi, da García Marquez a Stephen King e J.K. Rowling

di Giacomo Papi

(il Post)
(il Post)

Gli inizi dei libri – i cosiddetti “incipit” – sono un oggetto di culto. Anni fa a raccoglierli erano solo alcuni libri (nel 1993 ne uscirono addirittura due, uno di Fruttero & Lucentini, l’altro introdotto da Umberto Eco), ma è con Internet che la moda è iniziata davvero. I siti dedicati sono migliaia, in Italia e nel resto del mondo. Alcuni si limitano a elencarli, altri li hanno divisi in categorie, ci sono giochi per indovinarli e guide più o meno raffazzonate su come scriverne di bellissimi. Il magazine Stylist scrive che il suo articolo “Best 100 Opening Lines” è stato il più letto di sempre sul sito. Le ragioni sono molteplici: gli inizi sono brevi, pubblicarli e leggerli costa poca fatica, copiarli non è reato e non implica il pagamento dei diritti d’autore. Infine, gli inizi dei libri offrono a chi ne scrive o parla la possibilità di sembrare colti senza grande fatica e giocare con un oggetto serio – o almeno percepito così – come i libri.

(“Da dove comincio?”, un breve racconto composto solo di prime frasi di romanzi famosi, da Simenon a Edgar Allan Poe, da leggere e indovinare)

Le prime frasi dei romanzi sono un oggetto letterario, in effetti, interessante. Si dice per esempio che Italo Calvino, prima di morire, progettasse di dedicare la settima delle sue Lezioni americane proprio agli inizi; purtroppo non sappiamo cosa avrebbe scritto. In un lungo articolo – di fatto un piccolo saggio – Electric literature ne ricostruisce la storia, dalla nascita del romanzo a oggi, basandosi su una notevole quantità di articoli antichi e recenti, manuali di scrittura, sentenze di critici e scrittori dal Settecento a oggi, limitati però alle letterature americana e inglese. La tesi è che la forma e l’importanza della prima frase di un libro sono il risultato delle grandi trasformazioni storiche degli ultimi tre secoli.

Nel Settecento nessuno dava importanza all’inizio dei libri. I primi romanzi erano preceduti per convenzione da lunghe dediche al mecenate di turno, invocazioni al lettore, dichiarazioni di intenti, interminabili preamboli che avevano la funzione di chiarire la cornice fantastica, la genealogia e gli antefatti della vicenda narrata. Nel 1719 Daniel Defoe inizia Robinson Crusoe giustificandosi: «Se mai la storia delle avventure di un uomo qualunque in questo mondo fu degna di essere pubblicata e, una volta pubblicata, di essere bene accolta, colui che l’ha data alle stampe è convinto che questa lo sia». Dopo il preambolo, l’attacco convenzionale era partire raccontando la nascita, i genitori e la condizione sociale del protagonista (ed è quello che infatti Defoe fa nel primo capitolo di Robinson Crusoe). Era un’abitudine così consolidata – modellata sullo straordinario attacco del Vangelo di Matteo – che in Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, Laurence Sterne la prende di mira dalle prima righe: «Avrei desiderato che mio padre o mia madre, o meglio tutti e due, giacché entrambi vi erano ugualmente tenuti, avessero badato a quello che facevano quando mi generarono».

Oltre che con la genealogia, si poteva iniziare descrivendo una casa, un paesaggio, il tempo atmosferico («Era una notte buia e tempestosa», prima che di Snoopy, è l’inizio di Paul Clifford di Bulwer-Lytton) o calcolando le rendite di una famiglia come fa Jane Austen in Orgoglio e pregiudizio: «È cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie». Ma i romanzieri di allora potevano permettersi di prendersela con calma perché la battaglia per l’attenzione era meno cruenta di oggi. Gli editori non ricevevano migliaia di manoscritti da valutare e se i lettori avevano un libro tra le mani, di solito, lo leggevano senza essere interrotti. Poteva capitare – come in effetti capitò a Charlotte Brönte nel 1847 – di mandare un manoscritto a un editore a fine agosto e di vederselo in libreria già a metà ottobre. Oggi, come si legge in 77 Reasons Why Your Book Was Rejected, una buona prima frase «è la prima linea di difesa contro editori e agenti che vogliono rifiutare il libro».

Questa stagione paciosa fu interrotta dalla velocizzazione dei tempi di vita e delle comunicazioni. A imprimere un’accelerazione decisiva furono, in particolare, due fattori: la stampa e la pubblicità. Nel 1808 il mensile per donne Ladys Monthly Museum pubblicò una lista di regole per scrivere un romanzo moderno in cui si raccomandava di iniziare saltando i preamboli entrando subito nel vivo della storia, «poiché nulla è così assurdo e insipido che trascinare per almeno quattro capitoli una persona che già sa di chi o che cosa sta leggendo; e soprattutto assicuratevi che la prima frase sia un’esclamazione di orrore, meraviglia o apprensione». Sono regole molto simili a quelle prescritte negli anni per gli attacchi degli articoli di giornale. Nel 1836 un articolo sul New York Mirror si raccomandò: «Chi scrive per i periodici dovrebbe essere breve e preciso, gettando in media res dalla prima frase. Affondare ogni retorica».

L’altra influenza fondamentale fu la pubblicità, che nel corso dell’Ottocento mise a punto le tecniche e i trucchi per attirare l’attenzione e suscitare la curiosità con il minor numero possibile di parole. «Marley era morto, tanto per cominciare» è l’inizio del Canto di Natale di Charles Dickens. Dall’Ottocento – nota Electric Literature – sempre più spesso i recensori iniziano a prestare attenzione e a parlare delle prime frasi dei libri. Nel Novecento la transizione è compiuta. Non c’è più tempo di aspettare: «Che gente sorprendentemente paziente erano i nostri antenati!» è l’attacco di un pezzo del Manchester Guardian sugli inizi dei libri. «Sapevo se un libro era buono quando avevo letto la prima frase», dice una recensione del Times Literary Supplement nel 1921. In un’altra, del 1923, si legge: «La frase di apertura non è stata una scelta felice».

Nei primi anni del Novecento l’inizio di un libro è quasi sempre in medias res, nel vivo dell’azione. La scrittura si accende mentre la vicenda è in corso, come una cinepresa, ed è possibile che la nascita del cinema abbia ulteriormente spinto in questa direzione: non c’è più bisogno di spiegazioni, genealogie o preamboli. La prima sfida per gli scrittori è catturare l’attenzione e tenerla, perché ormai i libri sono tanti e il mercato è un fattore insito nella scrittura. Nel 1895, tra l’altro, iniziano a essere pubblicate le classifiche di vendita dei libri. Come in pubblicità, la cosa essenziale è incuriosire il lettore e trascinarlo nel desiderio di fare parte di un mondo. Quando nel 1936 l’Observer lanciò un concorso tra i lettori per il migliore inizio di un romanzo, il vincitore risultò essere questo: «Un bastardino con il pelo ispido e l’aria terrorizzata veniva piangendo per una strada solitaria, tenendo in bocca una mano umana». Da un punto di vista formale, è un modo di attirare l’attenzione sovrapponibile a quello di uno degli inizi più celebri e belli della storia della letteratura: «Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina da sogni inquieti, si trovò trasformato in un enorme insetto». (Franz Kafka, La metamorfosi).

Nella lista dei 200 romanzi degni di nota compilata dal Times solo otto – ha calcolato Electric Literature – iniziano con una descrizione e nessuno di questi è stato scritto da un debuttante, ma tutti da autori affermati che l’attenzione l’hanno già conquistata. In realtà questa regola non vale sempre e per tutti, per fortuna. I libri continuano a iniziare con banali notazioni meteorologiche («Era la stagione delle piogge, a Bangkok», Yukio Mishima, Il tempio dell’alba), con frasi assurde («Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra fin dall’inizio domenica, potete star certi che qualcosa non va», John Wyndham, Il giorno dei Trifidi) o violente («Era una gioia appiccare il fuoco», Ray Bradbury, Fahrenheit 451), descrivendo una famiglia normale («Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano», J. K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale) o l’aspetto fisico di un personaggio («L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo», Mario Vargas Llosa, La guerra della fine del mondo). È vero, però, che la frequenza di attacchi secchi è aumentata e tende ad aumentare, anche se non si è imposta come regola unica. Nel libro In principio. 2001 modi di iniziare un romanzo gli incipit sono organizzati per categorie tematiche.

In un bellissimo articolo pubblicato nel 2013 sull’Atlantic Monthly, Stephen King racconta: «Quando sto per iniziare un libro, lo compongo a letto prima di addormentarmi. Sto lì sdraiato nel buio e penso. Provo a scrivere un paragrafo. Un paragrafo di apertura. E in un periodo di mesi o anche di anni, muovo le parole e le rimuovo finché non sono felice di quello che ho. Se riesco ad avere il primo paragrafo giusto, so che potrò scrivere il libro». Tra i migliori inizi della storia della letteratura, Stephen King cita «Verso mezzogiorno m’hanno buttato fuori dal camion» di Il postino suona sempre due volte di James M. Cain e «Questo è quello che è accaduto» di Sparatoria di Douglas Fairbairn: il primo perché ti precipita dentro una storia, il secondo perché stabilisce da subito che sarà raccontata la verità. Tra i propri, King non ha dubbi: «La migliore prima frase che io abbia mai scritto è l’attacco di Cose preziose, stampato da solo su una pagina in corpo 20: «Sei già stato qui». Lì da sola su una pagina, la frase invita il lettore a continuare a leggere. Suggerisce una storia familiare, ma allo stesso tempo è una presentazione insolita che porta fuori dal reame dell’ordinario».

La caratteristica fondamentale di un buon inizio, oggi, è che contenga già una promessa di ciò che verrà. L’inizio, insomma, dovrebbe avere già in sé l’annuncio della fine. In questo senso l’attacco è un concentrato della storia, una frase in cui presente e passato collassano l’uno sull’altro, in cui il tempo presente – quello del racconto – si dispiega a partire da quanto è già avvenuto in passato, ma che nel libro accadrà nel futuro. È questo, forse, il tratto più ricorrente del modo in cui negli ultimi cinquant’anni gli scrittori hanno cercato di iniziare. In fondo è una tecnica, ma in quanto tale non è sufficiente a garantire il risultato. È la stessa tecnica utilizzata da Gabriel García Márquez, con uno stile lontanissimo da quello di Stephen King: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio» (Cent’anni di solitudine); «Era inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati» (L’amore ai tempi del colera); «Il giorno in cui l’avrebbero ucciso, Santiago Nazar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo» (Cronaca di una morte annunciata).

Come si vede nessuna tecnica o schema può uniformare la scrittura di un incipit perché la chiave ed efficacia e bellezza di un inizio risiedono altrove. Nell’intervista all’Atlantic Monthly, Stephen King lo dice: «Ma per me, una buona apertura inizia veramente con la voce. Quando si ascoltano le persone parlare della “voce” di uno scrittore, in realtà il più delle volte intendono “stile”. La voce è molto di più. La gente arriva ai libri cercando qualcosa. Ma non arriva per la storia e neppure per i personaggi. Certamente non arrivano per il genere. Credo che i lettori vengano per la voce».

Se gli inizi dei grandi romanzi sono così considerati, letti e ricordati è anche per un’altra ragione: sono il primo scalino delle storie scritte e aiutano ad avere meno vertigini di fronte alla pagina bianca. La cosa più importante da tenere a mente, però, quando si vuol scrivere una storia, è che in fondo l’inizio è l’ultima cosa. È il caso di uno dei più meravigliosi attacchi della storia della letteratura, che ne è al contempo la fine: si tratta del racconto più breve del mondo. È intitolato El dinosaurio, lo pubblicò nel 1959 Augusto Monterroso, un geniale scrittore honduregno-guatemalteco.

Dice, semplicemente:

«Quando si svegliò il dinosauro era ancora lì».