25 maggio 2015

Perché il sistema immunitario non aggredisce l'organismo

I linfociti T che causano le malattie autoimmuni non vengono eliminati con la maturazione del sistema immunitario e sono abbondanti anche in età adulta. Ma esiste un meccanismo che impedisce loro di aggredire le cellule dello stesso organismo(red)

Per molto tempo, i ricercatori hanno creduto che il corpo umano procedesse in modo ordinato nel gestire i linfociti T autoreattivi, le cellule del sistema immunitario in grado d’innescare il diabete, lupus o altre malattie autoimmuni, eliminandoli nei primi anni di vita. Una nuova ricerca pubblicata il 19 maggio sulla rivista "Immunity" smentisce questo modello consolidato, dimostrando che l'organismo li conserva in forma benigna, al fine di combattere potenziali invasori, anche quando il sistema immunitario è completamente maturato.
 
Questa conclusione è il frutto di un approfondito studio sull’immunità dei topi e degli esseri umani, grazie al quale un gruppo della Stanford University ha scoperto la presenza di un gran numero di linfociti T autoreattivi nel flusso sanguigno per tutta l'età adulta. Tuttavia, l’attivazione di queste cellule non è facile, suggerendo l'esistenza di "un meccanismo d’inibizione integrato", spiega l'immunologo Mark Davis, autore senior dell'articolo.
 
Perché il sistema immunitario non aggredisce l'organismo
Microfotografia ottenuta con il microscopio elettronico a scansione di un linfocita T (Cortesia NIAD)
Il risultato riaccende il dibattito su come il sistema immunitario riesca a schierare le sue difese contro una miriade d'invasori risparmiando le cellule dei nostri tessuti. La questione è emersa alcuni decenni fa, quando i ricercatori hanno svelato il segreto dell'incredibile versatilità del sistema immunitario, scoprendo che un particolare processo di mescolamento genico produce milioni di anticorpi e recettori.
 
Il loro numero e la loro varietà solo tali da permettere alle nostre cellule immunitarie di riconoscere, in linea di principio, qualunque tipo di agente patogeno. In questo modello c’è però un mistero, poiché quei riarrangiamenti genici casuali producono anche linfociti T che potrebbero attaccare
i tessuti dello stesso corpo. La soluzione ipotizzata da alcuni ricercatori è che l’organismo elimini quelle cellule autoreattive nel corso dello sviluppo del sistema immunitario.
 
Successivi esperimenti in diversi laboratori hanno corroborato l'ipotesi. In uno studio condotto in Svizzera e pubblicato nel 1988, ricercatori hanno modificato geneticamente un topo in modo che la maggior parte dei linfociti T dell'animale riconoscesse lo stesso antigene, un frammento di proteina chiamata HY che si trova solo nei maschi. Nei topi di sesso femminile, in cui questa proteina è assente, i linfociti T HY-specifici si sviluppavano in modo normale, proprio come i linfociti T che riconoscono i virus influenzali o altro materiale estraneo. Invece nei topi maschi, i linfociti T HY-specifici in circolazione difficilmente ci riuscivano. I risultati appaiono coerenti con la teoria prevalente per lungo tempo, secondo cui l'eliminazione delle cellule autoreattive sarebbe avvenuta durante lo sviluppo.
 
Tuttavia, alcuni ricercatori non erano convinti. Nello studio del 1988, i topi erano un sistema artificiale. I linfociti T degli animali di sesso femminile erano prevalentemente specifici per una singola proteina, HY, mentre i 200 miliardi di linfociti T in un tipico essere umano adulto riconoscono milioni di sostanze diverse. E qui sta la sfida: come pescare da quell'enorme mix le poche cellule d’interesse?
 
Davis e colleghi hanno superato l'ostacolo nel 1990, quando sono riusciti a collocare un'etichetta fluorescente su singoli linfociti T. Ciò ha permesso di prendere grandi quantità di cellule immunitarie e di utilizzare le procedure di selezione convenzionali per isolare le rare cellule che volevano studiare. Con successivi perfezionamenti introdotti dal laboratorio di Marc Jenkins alla University of Minnesota Medical School, il metodo è diventato abbastanza sensibile per esaminare i linfociti T naturali specifici nel contesto di un sistema immunitario normale.
 
In quest’ultimo studio, il gruppo di Davis ha utilizzato un approccio simile per determinare la concentrazione di linfociti T HY-specifici in un gruppo di donatori di sangue. Nelle donne, circa uno su 68.000 linfociti T killer era HY-specifico. (Circa un terzo dei nostri linfociti T sono linfociti T "killer", che attaccano le cellule tumorali e altri invasori; gli altri due terzi sono linfociti T "helper" che facilitano l’inizio di questo attacco.) Negli uomini la frequenza di linfociti HY-specifici era solo di poco inferiore (uno su 200.000). Ciò significava che un numero considerevole di loro linfociti T "killer" HY-specifici era sfuggito all'eliminazione.
 
Le sorprese sono arrivate quando gli scienziati hanno esaminato i campioni di sangue alla ricerca di linfociti T killer specifici per altri peptidi “estranei”, cioè "non-self": il loro numero era essenzialmente lo stesso di quello dei linfociti T che riconoscono vari peptidi "self". Essi però non si comportano allo stesso modo: allevati in capsule di Petri, i linfociti specifici per il non-self sono cresciuti facilmente, mentre quelli specifici per il self languivano. Inoltre, nei linfociti T specifici per il non-self, un insieme di geni coinvolti nella proliferazione era espresso a livelli molto più bassi che in linfociti T specifici per il self. "C'era qualcosa di strano nelle cellule specifiche per il self”, spiega Davis. “Occorreva qualcosa di più per attivarli”.
 
Considerando che le malattie infettive sono storicamente la prima causa di morte, i risultati probabilmente hanno un senso. “Ciò che occorre è che le cellule autoreattive siano presenti nel caso in cui capiti un agente patogeno con quella specificità”, dice Davis. A sostegno di questa idea, il suo team ha modificato una sezione centrale di un peptide del virus dell’epatite C sostituendo ciascuno dei 20 tipi di amminoacidi che lo compongono. Hanno così scoperto che i campioni di sangue umano contenevano linfociti T specifici per tutte e 20 le versioni del virus.

Alcuni ricercatori pensano che le nuove scoperte potrebbero cambiare le conoscenze su come l’organismo gestisce i linfociti T autoreattivi. Invece di eliminarli totalmente, spiega Jenkins, è come se il sistema "li ‘stordisse’ in modo che siano sempre presenti, ma non attivi”.

Altri vedono le cose in modo diverso. Philippa Marrack, del National Jewish Health a Denver, sostiene che il sistema immunitario "deve mantenere in ogni caso i linfociti autoreattivi” perché alcuni diventano linfociti T regolatori, specializzati che hanno la funzione di sopprimere altre cellule immunitarie.

Qualunque sia il loro destino, i linfociti autoreattivi potrebbero essere utili per l'immunoterapia in campo oncologico, spiega Davis. Questo approccio terapeutico utilizza i linfociti T dell’organismo per aggredire i tumori, ma spesso la terapia non è affidabile. I linfociti T possono essere inibiti "perché percepiscono la cellula tumorale come dotata di un antigene self”, dice Davis. Capire come diminuire questa inibizione potrebbe indurli ad attaccare il cancro.
 
La versione originale di questo articolo è apparsa su scientificamerican.com il 21 maggio. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)