Milano, 22 febbraio 2016 - 12:50

La Venere di Man Ray, se la disabilità
si trasforma in un simbolo di bellezza

Al Mar di Ravenna in mostra l’opera ispirata al mito senza braccia. Che riuscì a influenzare performer e creativi del secolo scorso. Abbattendo numerosi pregiudizi

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La Vénus Restaurée
La Vénus Restaurée

Realizzata nel 1936 con un calco in gesso del torso della Venere di Milo legato da corde, la Vénus restaurée di Man Ray è fra le opere più dichiaratamente classiche in mostra al Mar di Ravenna, nella rassegna La seduzione dell’antico). Paradossalmente, l’autore era un dadaista radicale e come tale avrebbe dovuto rifiutare ogni valore e modello della cultura tradizionale. Invece, nel capovolgimento delle convenzioni, nel gusto dello scandalo e nell’esercizio dell’umorismo dissacratorio, Man Ray faceva costantemente riferimento alla cultura classica europea tanto è vero che, pur essendo nato a Philadelphia nel 1890, in America si sentì sempre straniero, almeno quanto a suo agio a Parigi. Il suo vero nome era Emmanuel Radnitzsky ed era figlio di due ebrei immigrati nel Nuovo Mondo dalla Bielorussia e da Kiev ma, a differenza di Marc Chagall, altro celeberrimo ebreo orientale e suo coetaneo, Man Ray non fece mai della sua cultura religiosa una bandiera. La storia della Vénus restaurée di Man Ray comincia da lontano, con la scoperta della statua di Venere nell’isola greca di Milos, nel 1820.

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Le evoluzioni (inattese) della Venere senza braccia

Il marchese de Rivière, ambasciatore di Francia presso l’Impero Ottomano che all’epoca dominava sulla Grecia, la regalò a Luigi XVIII il quale, a sua volta, la donò al Louvre dove fu esposta nel 1821. La Francia vi colse subito l’occasione per riscattarsi dallo smacco subìto con la restituzione all’Italia, in seguito alla sconfitta di Napoleone, di molte opere d’arte fra cui la celebre Venere Medici. Per la propaganda sciovinista francese la dea di Milo divenne subito «La statua che tutti i musei d’Europa ci invidiano. È considerata, a ragione, la più riuscita rappresentazione della bellezza, la più perfetta rappresentazione dell’eterno femminino», scrisse Théophile Gautier.

C’era, però, il problema che non portava in dote la paternità di un nome celebre come quello di Cleomene di Apollodoro che nobilitava invece la Venere Medici; ma dalla sua aveva il mistero dell’iconografia: che cosa teneva nella mani e nelle braccia mancanti? Una lira? Un pomo di Paride? Fu proprio grazie a quegli arti mutilati che la Venere di Milo entrò nell’immaginario collettivo. Quando Man Ray, nel 1933, fotografò il volto della stilista Elsa Schiapparelli usando per la prima volta un calco del busto della Venere, Marlene Dietrich aveva già interpretato la Venere bionda di Josef von Sternberg e la locandina del film mostrava l’attrice seminuda che, grazie a lunghi guanti neri su fondo nero, sembrava avere le braccia mozzate come la statua. Anche la pubblicità aveva sfruttato il fascino della Venere fin dal 1910, quando la Kellogg’s promuoveva la scatola di cereali con la scritta: «Se la Venere avesse le braccia». Ma a sua volta la Vénus restaurée di Man Ray, replicata dieci volte su indicazione dello stesso autore fino al 1971, diede vita a un filone interpretativo che ne accentuava il lato della disabilità più di quello erotico divenendo modello ispiratore per altri artisti e nuovi immaginari.

Per esempio, nel 1987, la performer irlandese Mary Duffy, nata senza braccia, provocava il pubblico facendolo riflettere sul suo handicap, uguale a quello di Venere, ritenuto modello occidentale di bellezza. Jillian Mayer, nel 2011, ricreò un autoritratto della statua classica tentando di staccarsi le braccia a morsi. E sempre sul tema si è esercitato anche il britannico Marc Quinn che, nel 2005, pose sul plinto vuoto della londinese Trafalgar Square la statua di una donna focomelica. Stessa strada seguita anche dalla pubblicità: nel 2003, per esempio, la Regione Veneto lanciò una campagna di sensibilizzazione con la scritta: «Venere di Milo 2200 anni. Disabile? Dipende». Per un paradosso dadaista non poteva esserci ribaltamento più efficace di quello bellezza/disabilità.

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