14 aprile 2015

Le basi genetiche dell'effetto placebo

I portatori di alcune varianti geniche sono particolarmente propensi a manifestare l'effetto placebo. La scoperta di questa componente genetica del fenomeno solleva vari interrogativi sui protocolli sperimentali usati per testare l'efficacia dei farmaci, ma solleva anche alcuni problemi di etica medica(red)

Alcuni geni potrebbero rendere qualcuno più incline a sperimentare l'effetto placebo, il fenomeno per cui un paziente mostra un miglioramento dei sintomi perché crede di essere sottoposto a una terapia anche se gli è stata somministrata una sostanza farmacologicamente inerte. La scoperta è di tre ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Universiry, che firmano un articolo pubblicato su “Trends in Molecular Medicine”.

Le basi genetiche dell'effetto placebo
© Andrew Brookes/Corbis
Diversi studi hanno indicato che l'effetto placebo è mediato da numerose vie di segnalazione nel cervello, ma finora era stata dimostrata chiaramente soltanto una correlazione fra una maggiore sensibilità all'effetto placebo in situazioni di anestesia locale e una particolare variante (polimorfismo di singolo nucleotide, o SNP) del gene COMT, che produce un enzima, la catecol-O-metiltrasferasi, che interviene nel metabolismo della dopamina e di altre catecolamine.

Nel nuovo studio Kathryn T. Hall e colleghi hanno passato in rassegna la letteratura scientifica sull'argomento riuscendo a identificare almeno altri dieci SNP a carico di altrettanti geni che appaiono coinvolti nell'effetto placebo in molte, differenti situazioni cliniche.

Questa scoperta, osservano i ricercatori, ha potenziali ricadute sia sul piano clinico sia su quello della definizione dei protocolli sperimentali per stabilire l'efficacia dei farmaci. "Una maggiore comprensione dell'effetto placebo attraverso l'identificazione dei geni a cui è legato offre la possibilità di migliorare le risposte dei pazienti alle terapie e di rendere più accurati i test progettati per rilevare le differenze fra farmaco e placebo” ha detto la Hall, che ha anche proposto un nuovo nome per il complesso dei geni e delle variazioni
geniche coinvolti nell'effetto placebo : placeboma.

Negli studi clinici di efficacia – in cui a metà dei soggetti arruolati viene somministrato un farmaco e all'altra metà un placebo per poi confrontare le differenze nello stato di salute –  per esempio, bisognerebbe selezionare più attentamente i pazienti, escludendo quelli che probabilmente trarrebbero un beneficio da qualsiasi trattamento. Una soluzione alternativa potrebbe dividere equamente il numero dei “soggetti placebo” fra il gruppo che riceve il farmaco da testare e il gruppo di controllo. O ancora: affiancare a questi due gruppi di soggetti, un terzo gruppo che non riceva alcun trattamento, neppure placebo, in modo da poter correggere in fase di analisi dei dati le distorsioni statistiche indotte dalla presenza di soggetti placebo.

Ma l'esistenza del placeboma pone anche questioni di tipo etico: se i nuovi farmaci fossero sperimentati solo su “soggetti non placebo” – si chiedono i ricercatori – sarebbe poi corretto somministrarli ai soggetti placebo? Prima di prescriverli, il medico dovrebbe richiedere il test sulla propensione genetica del paziente all'effetto placebo? E il paziente dovrebbe potersi rifiutare di sottoporsi a quel test? Il paziente dovrebbe essere avvertito della sua eventuale propensione? E potrebbe rifiutarsi di venirlo a sapere? E infine, e soprattutto: sapere di essere un soggetto placebo può influire sulla risposta all'effetto?