Si chiamano partecipate (pubbliche) e si capisce subito che la voglia di partecipare è tanta: girano soldi grossi, anche se spesso il bilancio finisce in rosso. Quelle importanti si occupano di acqua, energia, rifiuti e trasporto pubblico, ma ce ne sono di piccole che si dedicano alla comunicazione, ai servizi, al software, alla pesca, alle assicurazioni. Sono senz’altro troppe e disorganizzate: se va bene rendono poco o nulla, quando va male scavano voragini nei conti (pubblici) con la faccia di chi pensa che l’importante è partecipare. La Corte dei Conti nota che in sette Regioni (Piemonte, Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia) «le perdite di esercizio delle partecipate locali risultano in larga misura superiori agli utili». Vai poi a distinguere quelle buone, tra 7.684 partecipate locali di cui quasi duemila del tutto pubbliche (6.402 attive, le altre in liquidazione. Intanto la Corte dei Conti le bacchetta anche perché, spiega, salta agli occhi «la netta prevalenza degli affidamenti in house, mentre le gare con impresa terza risultano essere soltanto 90, su un totale di 26.324 rapporti tra enti e organismi, e 266 gli affidamenti a società mista, con gara a doppio oggetto». Come dire che queste società non amano fare affari in modo trasparente.

Rapporti sospetti

Questo ci porta direttamente alla resistenza strenua che si incontra ogni volta che un cacciatore di risparmi incappa nelle partecipate pubbliche. Quelle società significano poltrone che la politica può distribuire: nel censimento Istat pubblicato a fine 2014 se ne contavano più di 1800 con zero addetti a libro paga (e più della metà di queste aveva il bilancio in rosso). Altre tremila hanno meno di sei dipendenti, almeno un migliaio fattura meno di centomila euro l’anno. Dimensioni che non giustificano la mano pubblica, si direbbe. Così la pensava Carlo Cottarelli, ex commissario per la spending review (poi tornato al Fmi), che aveva preparato un dossier corposo e spiegava: «Non si conosce il numero esatto delle partecipate locali, perché non tutte le amministrazioni forniscono le informazioni». Cottarelli azzardava un numero tra le 7 e le 10mila, notando che in Francia «sono circa un migliaio». E a proposito dei microappalti: «si tratta di piccole società con il sospetto che molte siano state create principalmente per dare posizioni di favore a qualche amministratore o dipendente». Soprattutto, diceva Cottarelli, lo stato potrebbe ottenere gli stessi beni e gestire gli stessi servizi risparmiando tra i due e i tre miliardi l’anno.

Polverizzate

Duecentoventi società pubbliche italiane si occupano di comunicazione, ma solo undici fatturano più di diecimila euro. E ci sono aziende che si occupano di consulenza, fornitura di software, programmi di ricerca e sviluppo, servizi turistici, fino alla manifattura, all’allevamento e all’agricoltura, alla pesca. Razionalizzare? Bisognerebbe chiudere: e anche Cottarelli consigliava prudenza. Nelle partecipate (quelle di cui c’è notizia certa) lavorano quasi seicentomila persone. Nessun sindaco (o governatore) gradisce rivolte e dibattiti a base di suberi, trattative e mobilità a casa sua. Cottarelli sosteneva di poter ridurre le partecipate da 8000 a mille in tre anni. Il primo giro partito. Dice la Corte dei Conti che - scaduto il termine per presentare un piano di razionalizzazione lo scorso marzo - per ora solo metà degli enti interessati si è sentito in obbligo di prepararlo. Cottarelli, si diceva, è tornato al Fmi.

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