Uranio impoverito, una verità senza dimora

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    Intervista a Daniela Volpi autrice del libro “Memoria Pubblica e missioni di pace. Il caso della Sindrome dei Balcani” (Carocci Editore, 2015)

    Mentre il Sì unanime della Camera all’apertura di una quarta Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito, promossa con tenacia dalla deputata Sel Donatella Duranti, riapre il dialogo istituzionale, Daniela Volpi, laureata in Informazione Editoria e Giornalismo presso l’Università di Roma Tre, e con alle spalle diversi anni di collaborazione con l’associazione Anavafaf di Falco Accame, pubblica il suo libro “Memoria Pubblica e missioni di pace.  Il caso della Sindrome dei Balcani” in cui analizza in maniera inedita le cause delle scomode morti dei soldati italiani reduci dalle missioni di pace all’estero. L’elemento responsabile è l’uranio impoverito utilizzato dagli americani, a partire dalla prima guerra in Iraq (1991), in virtù del suo elevato potere deflagrante e il basso costo alla produzione. Centinaia di militari hanno inalato le sostanze tossiche prodotte dalle esplosioni, senza essere stati dotati delle protezioni adeguate, senza essere stati informati sulla tossicità chimica dell’uranio e sui gravi danni che tutto ciò avrebbe potuto provocare al loro organismo. Questo non è solo un libro di denuncia, che in maniera lucida e ben documentata individua le responsabilità di una strage silenziosa e dimenticata, ma è un’analisi dettagliata che utilizza i modelli teorici messi a disposizioni dagli studi sociologici per mostrare in maniera inequivocabile come le istituzioni abbiano generato strategiche politiche di oblio, producendo un oscurantismo informativo non degno di un paese civile e democratico. Un trauma, questo, che continuerà a rimanere irrisolto fino a quando un mea culpa istituzionale consentirà alle vittime e ai loro familiari una degna e doverosa iscrizione nella memoria pubblica del nostro Paese, restituendo il giusto riconoscimento al sacrificio di tanti giovani soldati che si sono ammalati e sono morti in nome di uno Stato che non è stato in grado di proteggerli.

    Dove nasce il suo interesse per la questione dell’uranio impoverito e cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?

    Questo libro nasce da un lungo percorso di presa di coscienza. Io sono la familiare di una probabile vittima dell’uranio. Dico “probabile” perché questo nesso di causa-effetto non è stato ufficialmente riconosciuto dallo Stato italiano, anche se il legame tra esposizione all’uranio impoverito e insorgenza di patologie tumorali è stato confermato da ben 36 sentenze dei tribunali civili, l’ultima in ordine di tempo pronunciata lo scorso maggio dalla Corte d’Appello di Roma. Da questa vicenda personale ho cominciato a interessarmi al problema, per capire la causa della morte del mio familiare. Questo mi ha indotto ad approfondire alcuni temi e a studiarli; ho scoperto che la maggior parte della gente non è a conoscenza di questo problema, c’è una totale disinformazione.

    Ha mai avuto qualche sospetto, all’inizio della sua vicenda personale, che il suo familiare si sia ammalato e sia poi deceduto a causa della tossicità dell’uranio impoverito?

    No, nessuno. Poi un amico di famiglia mi ha informato sulla circostanza di un possibile nesso tra uranio impoverito e forme tumorali, che avevano colpito anche altri militari. La mia prima reazione è stata di rifiuto, ho negato che potesse esserci un correlazione. La malattia e la morte sono un fatto naturale anche in giovane età; quasi tutte le famiglie subiscono un lutto per un caso di tumore, ciò rientra nell’ordine delle cose. Invece l’ipotesi che potesse esserci una precisa responsabilità istituzionale per la morte non solo di una persona a me cara, ma di tante altre persone, è stato per me molto difficile da accettare.

    Quali sono le responsabilità delle istituzioni riguardo a questa vicenda?

    Sono quelle di non aver fornito le adeguate protezioni ai militari che si recavano nelle zone dove sono stati utilizzati i munizionamenti all’uranio impoverito, nel corso delle missioni di “pace”, che poi di pace non sono state, perché in ogni missione ci sono state molte vittime in un crescendo spaventoso, a partire dal Libano negli anni Ottanta fino a oggi. I governi italiani di diverso colore politico che si sono avvicendati nel corso degli anni (la questione, a mio parere, non riguarda l’orientamento politico) non hanno fornito ai militari strumenti idonei per difendersi dalla nocività dell’uranio impoverito, pur essendone l’Italia al corrente almeno dal 1991, anno della prima guerra in Iraq, nel corso della quale gli americani avevano fatto uso in modo massiccio delle armi all’uranio. Proprio tra i reduci della prima guerra del Golfo si erano verificati i primi casi di cancro, classificati come “sindrome del Golfo”. Tuttavia, gli studi sulla pericolosità dell’uranio impoverito (DU, depleted uranium) risalgono ai primi anni ’50, c’è chi dice addirittura ai tempi del nazismo. Per venire a tempi più recenti, l’Italia, in quanto membro della Nato, doveva essere al corrente della estrema tossicità del DU almeno dal 1991, o perlomeno esserne a conoscenza nel corso della missione in Somalia 1992-94. E’ lecito quindi ipotizzare, e dico ipotizzare anche se esistono documenti consultabili che lo provano, che l’Italia fosse al corrente della pericolosità dell’uranio durante la missione somala, poiché il contingente italiano operava a stretto contatto con quello USA, e i militari statunitensi erano provvisti di adeguate e assai visibili protezioni.

    Se l’Italia era informata perché non è intervenuta fornendo le protezioni adeguate?

    Io posso solo avanzare delle ipotesi poiché nessuno, fino ad oggi, ha mai dato delle risposte ufficiali. Fino alla fine degli anni ’90, il governo italiano ha sostenuto di non essere a conoscenza dell’utilizzo di armamenti all’uranio impoverito da parte degli Stati Uniti nei Balcani, né tanto meno in Somalia. Inoltre, anche quando l’evidenza smentiva tali affermazioni – il 22 novembre 1999 sono state diramate le disposizioni della KFOR, la forza multinazionale Nato impiegata in Kosovo, a firma del Col. Bizzarri, dove è descritta chiaramente la pericolosità del DU –  i governi italiani hanno continuato ad affermare che l’uranio impoverito non fosse nocivo o comunque che non avesse quel livello di pericolosità che nei fatti possiede. Ma ritornando alla domanda, una delle ipotesi che io mi sentirei di mettere in campo è quella riguardante l’alto livello di corruzione esistente nel nostro Paese. E’ possibile che i fondi, predisposti per acquistare le attrezzature idonee a proteggere i nostri soldati, siano stati “spostati” altrove, per finire chissà dove e chissà a chi. Oppure, come ha ipotizzato un’esperta di questi temi, la giornalista Marilina Veca, in un’intervista che mi ha rilasciato in occasione del decennale di commemorazione della strage di Nassiriya, si potrebbe anche banalmente supporre che gli equipaggiamenti protettivi siano stati acquistati, che magari siano finiti in qualche magazzino e che per una semplice ragione burocratica siano rimasti lì. In questo “strano” Paese tutto può succedere. In realtà, fornire delle protezioni ai nostri soldati significherebbe ammettere implicitamente la pericolosità del DU, e questo potrebbe decretarne la messa al bando, con pesanti ripercussioni dal punto di vista economico. Per dirla in termini poco tecnici, ma comprensibili a tutti, il DU ha un ottimo rapporto “qualità-prezzo”!

    Quale sarebbe il costo politico di ammissione di una propria responsabilità nei confronti dei morti e delle persone che si sono ammalate per essere venuti a contatto senza protezioni dell’uranio impoverito?

    In un paese normale, penso che il costo politico per una classe dirigente sarebbe stato quello di una dimissione di massa. Le prove di quello che sto dicendo esistono. Le sentenze dei tribunali danno ragione ai militari che si sono ammalati. Queste citano in modo inequivocabile che il  “ministero della Difesa è stato direttamente responsabile”. Il nesso probabilistico che era stato sostenuto in precedenza è stato sostituito con un nesso “certo”. Quindi, non lo dico io, lo dicono i tribunali, basta andare a leggersi le sentenze. In un altro Paese le conseguenze sarebbero state enormi, invece qui sono ancora tutti al loro posto. Nessun generale, capo di stato maggiore, ministro della Difesa, capo della sanità militare è stato mai processato. Al contrario, sono state varate delle normative ad hoc, per deresponsabilizzare i colpevoli. In sintesi, nessuno pagherà mai.

    E quale sarebbe il costo dal punto di vista economico e sociale?

    Questo è un punto molto interessante, perché, specialmente con l’attuale crisi economica, in virtù della quale i governi si trovano a dover affrontare grossi problemi di bilancio, i risarcimenti costituirebbero per lo Stato una spesa probabilmente insostenibile. A differenza di altre stragi, come quella di Nassiriya, che contava un numero preciso e ben definito di vittime da risarcire, in questo caso i numeri sono in costante incremento e questo significherebbe per il ministero delle Finanze un assai oneroso e non quantificabile capitolo di spesa.

    A quanto ammonta a oggi il numero dei decessi per effetto dell’uranio impoverito e quanti sono gli ammalati?

    Tra le cifre ufficiali dell’Osservatorio Epidemiologico del Ministero della Difesa e quelle delle associazioni ci sono delle differenze. I numeri ufficiali (anno 2012) sono approssimativi per difetto, anche se sono comunque cifre considerevoli: circa cento morti e diverse migliaia di ammalati. Mentre le associazioni stimano dai 300 ai 400 morti, e circa 4.000 ammalati. Ovviamente le fonti ufficiali tendono a minimizzare il problema.

    Nel suo libro analizza questa vicenda anche attraverso dei modelli teorici che mostrano come la risoluzione del trauma culturale subito da un gruppo di cittadini e la sua riconciliazione con le istituzioni passi necessariamente attraverso l’attribuzione dello statuto di vittime da parte dello Stato verso questi morti.

    Questo è un aspetto molto importante. Forse non per tutti, ma per molti familiari delle vittime e per coloro che sono ancora vivi, lo è certamente. Il riconoscimento morale del sacrificio che queste persone e le loro famiglie hanno dovuto sopportare; il riconoscimento morale non sono solo parole, ma sostanza, perché molti di questi uomini sono deceduti nei letti degli ospedali, dimenticati da tutti, obliati dalla società e dalle istituzioni. Se il risarcimento economico è fondamentale – ed io, per prima, non sono così ipocrita da negarlo, anche perché in molti casi, quando si è gravemente ammalati, poter disporre di risorse economiche per curarsi fa la differenza tra la vita e la morte – anche il riconoscimento morale è importantissimo. Non dimentichiamo che la maggior parte delle vittime sono militari e vestire una divisa, per chi ha fatto questa scelta di vita, ha un valore che va al di là del mero guadagno; anche le famiglie dei militari vivono con orgoglio la scelta fatta dai loro congiunti. Ci sono valori che stiamo dimenticando e che, senza retorica, andrebbero riconsiderati: la rettitudine, l’onore, il rispetto, lo spirito di sacrificio, la solidarietà, l’amore per la patria, che significa amore per le proprie radici. Non sto dicendo che questi principi siano unicamente prerogativa di chi indossa un’uniforme, ma solo che per molti militari rappresentano il motivo principale della loro scelta professionale. Lo posso affermare con certezza, poiché ho vissuto per molti anni in ambito militare.

    E’ corretto affermare che fino ad oggi le istituzioni non hanno riconosciuto a questi militari lo statuto di vittime perché sarebbe come dichiararle “vittime dello Stato”?

    Nessuno si illude che potrà mai celebrarsi un processo per i colpevoli; però sarebbe giusto avere un riconoscimento ufficiale, morale ed economico. Per quanto concerne la questione economica, il punto critico è che, anche in presenza delle sentenze “esecutive” dei tribunali civili che lo condannano ai risarcimenti, il ministero della Difesa in molti casi non procede con i pagamenti. La seconda questione riguarda le richieste avanzate da anni dalle associazioni dei familiari delle vittime, e rinnovate in occasione dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di poter essere finalmente ricevuti dal Capo dello Stato. Il presidente Mattarella conosce molto bene il problema dell’uranio; nel 2000 era ministro della Difesa, ed è stato colui che ha istituito una commissione medica per studiare il problema, la notissima “Commissione Mandelli”. Chi meglio di lui potrebbe finalmente tributare un riconoscimento morale, oltre ad assumersi l’impegno di fare chiarezza, nei confronti di coloro che attendono da tanto tempo?

    Il riconoscimento morale passa attraverso l’ammissione di responsabilità diretta da parte dello Stato di quelle morti. Pensa che questo potrà avvenire da parte del Presidente Mattarella?

    No, credo che questo non succederà.

    Quindi, questo riconoscimento morale da voi auspicato non ci sarà mai?

    No, non credo. Noi siamo stati cacciati a pedate fuori dalle istituzioni, ma forse rientreremo dalla finestra. Per me una delle istituzioni più importanti in un paese democratico è certamente l’università, che dovrebbe essere un luogo di cultura, al riparo da discriminazioni sociali, politiche, etniche, di genere, anche se non sempre è così. Per questo motivo, per me è molto importante riuscire a portare questo tema, con l’appoggio determinante della professoressa Anna Lisa Tota, docente di Roma Tre e alla quale sono infinitamente grata, attraverso il mio libro proprio all’interno dell’università. Ritengo che sia necessaria un’opera di sensibilizzazione all’esterno dei contesti delle associazioni, e credo che ciò sia possibile, perché questo è anche un problema di grave inquinamento ambientale. Vorrei ricordare il terribile stato di degrado, provocato dalle attività dei poligoni di tiro, in alcune aree di una splendida regione come la Sardegna, nella quale c’è un processo in corso nei confronti di 8 ex-comandanti del poligono di Salto di Quirra, per “rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro” (art. 437 c.p.p.). La Sardegna, una delle perle del Mediterraneo, un paradiso naturale devastato dai danni ambientali prodotti dall’utilizzo dell’uranio impoverito nei poligoni, che difficilmente potranno essere bonificati, sia perché per decenni non sono state effettuate bonifiche, sia perché questo tipo di inquinamento persiste per migliaia di anni. Lo stesso problema si è verificato nel poligono di Torre Veneri, in Puglia. Quindi la questione non riguarda solo la salute dei militari, cosa che probabilmente non interessa alla maggior parte dell’opinione pubblica; il luogo comune più diffuso è quello di affermare che i militari sono pagati per andare a farsi ammazzare, quindi se muoiono per una pallottola oppure di cancro, perché hanno respirato le nano particelle, sono affari loro. Ovviamente, questo significa banalizzare il problema. Tuttavia, ricordo a coloro che la pensano davvero così, che in Sardegna il 60% dei pastori che vivono e lavorano nelle aree intorno ai poligoni si sono ammalati di cancro. C’è stato un incremento di casi di nascite di bambini con malformazioni, così come anche di animali. L’agnello a “due teste” è ormai tristemente noto. E non dobbiamo dimenticare che queste particelle tossiche si disperdono nell’aria e viaggiano, spostandosi. La pericolosità dovuta alla contaminazione da DU non è tanto una questione di radioattività, ma di contaminazione chimica, e le nubi tossiche si muovono sul pianeta. Se pensiamo di essere al riparo all’interno dei nostri confini nazionali, forse dovremmo incominciare a riflettere maggiormente sulla questione dell’inquinamento globale, che riguarda tutti, esattamente come il problema  dell’innalzamento della temperatura terrestre. Le guerre degli ultimi venticinque anni hanno visto l’uso indiscriminato di questi armamenti, che ancora non sono stati messi al bando.

    Secondo lei c’è una responsabilità da parte dei mezzi di informazione in questa vicenda?

    La responsabilità è primaria, in un paese in cui l’80% delle persone di età adulta si informa quasi esclusivamente guardando la televisione, mentre i giovani si informano on-line e i quotidiani cartacei non li legge più nessuno. La televisione, per la maggior parte dell’ “anziana” popolazione italiana è, dunque, il primo mezzo di informazione. L’unica rete nazionale che in passato ha mandato in onda dei servizi sull’uranio impoverito è stata Rai3, Report se non vado errato ha realizzato 4 servizi in 16 anni, l’ultimo in occasione dell’elezione del presidente Mattarella. Con l’avvento dei canali digitali, anche RaiNews24 ha realizzato diverse inchieste, curate da Maurizio Torrealta, che si è occupato molto da vicino del problema, scrivendo anche un libro in collaborazione con il fisico Emilio Del Giudice, recentemente scomparso. Dal punto di vista divulgativo, Striscia la Notizia ha affrontato sistematicamente e con continuità in tutti questi anni questi temi scottanti. Lo ha fatto, ovviamente, alla sua maniera, ossia spettacolarizzando gli eventi, creando pathos intorno alle vicende umane ed esistenziali, intervistando direttamente le persone che si sono ammalate e raccontando le loro storie. E’giusto, solo che spesso queste modalità di fare informazione spostano troppo il focus sulle vicende personali, oscurando i veri problemi, ossia di chi sono le responsabilità e perché i colpevoli non pagano. Non credo che i palazzi del potere siano stati toccati da queste inchieste. Tuttavia, sono consapevole di quanto sia stato importante il ruolo e il contributo di Striscia la Notizia nel processo di divulgazione di queste tematiche, e nella sensibilizzazione di un pubblico più vasto sulla questione dell’uranio impoverito, problema molto grave che riguarda la salute di noi tutti.

    I mezzi di informazione hanno sostenuto le istituzioni nelle loro politiche dell’oblio o semplicemente è un argomento che non fa audience?

    Non è una questione di audience. Per la tv generalista delle principali reti nazionali, in particolare per la tv di Stato, questo è un tema tabù. Non per Striscia la Notizia, che nel 1999 ha acquisito e trasmesso un documentario riguardante le patologie che avevano colpito i militari USA durante l’operazione Desert Storm nel 1991. Il documentario, dal titolo “La sindrome del Golfo”, realizzato per la Rai dal regista Alberto d’Onofrio, doveva andare in onda su Rai3, ma l’emittente lo ha congelato. Da quel momento, Striscia ha continuato ad occuparsi della questione DU, fino ad oggi.

    Quali aspettative nutre all’indomani della pubblicazione del suo libro e dall’istituzione recente di una quarta Commissione d’inchiesta?

    Spero che questo libro possa essere uno strumento di conoscenza per quella parte – enorme – di pubblico che ignora il problema, e soprattutto per giovani che frequentano il circuito universitario, i quali rappresentano la vera speranza per il futuro. Le loro reazioni durante il seminario sul tema, curato dalla prof.ssa Tota e svoltosi a Roma3 il 13 gennaio scorso, ovvero l’incredulità che ho letto all’inizio nei loro occhi, che si è presto trasformata in estremo interesse, le tante domande che hanno posto, e le attestazioni di simpatia e di solidarietà al termine del seminario, mi fanno ben sperare.

    Elena Martinelli

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