10 aprile 2015

L'evoluzione della frode scientifica

Le pubblicazioni digitali e l’enfasi sulle valutazioni numeriche della ricerca stanno cambiando anche la cattiva condotta tra gli scienziati, spiega Mario Biagioli, professore di storia, legge e studi sociali sulla scienza all’Università della California a Davisdi Alessandro Delfanti

Da sempre anche gli scienziati, non tutti ovviamente, commettono scorrettezze o frodi: per esempio falsando i dati o plagiando ricerche effettuate da colleghi. Internet però ha cambiato le forme di comunicazione della ricerca, e con esse le forme di frode o di condotta eticamente scorretta. Inoltre le nuove forme di valutazione, per esempio le metriche che calcolano le pubblicazioni o le citazioni, hanno alimentato comportamenti il cui obiettivo è soddisfare le metriche stesse, e non produrre ricerca di qualità. Mario Biagioli, professore di storia, legge e studi sociali sulla scienza all’Università della California a Davis, riflette su che cosa significhi oggi pubblicare e valutare la ricerca scientifica e quali siano i confini legali ed etici dei comportamenti assunti dai ricercatori o dalle università.

Lei ritiene che le modalità della frode scientifica stiano cambiando, perché?
Il mio interesse nasce dall’osservazione che la cattiva condotta nella ricerca scientifica e più in generale nell’università si sta modificando con lo sviluppo delle pubblicazioni digitali. La rete rende più facile il plagio, ma anche il controllo, e ha moltiplicato il numero delle pubblicazioni. Tuttavia a questo va aggiunta l’enfasi su forme di valutazione strettamente numeriche, per esempio metriche basate su numero di citazioni e impact factor della rivista, oppure la centralità crescente del curriculum vitae come «passaporto accademico». Da una fase in cui si descriveva il lavoro del ricercatore con la formula «pubblica o muori» siamo passati a un sistema in cui l’imperativo è «fatti contare o muori». Al di là della questione della violazione evidente delle norme professionali, mi sto chiedendo come sia possibile giocare con le regole stesse del gioco, sfruttandone i punti deboli,
nel momento in cui le metriche diventano la madre di tutte le valutazioni.

Le regole del gioco però non sono decise dai singoli scienziati
Infatti in passato la frode era legata al comportamento di singoli ricercatori, ed era grezza e ambiziosa allo stesso tempo, ed esponeva l’autore al pericolo di essere scoperto. Nel caso dell’uomo di Piltdown, tanto per fare un esempio, nel 1912 venne assemblato uno scheletro usando ossa umane e di primati per simulare lo spettacolare ritrovamento di un anello mancante nell’evoluzione di Homo sapiens. Oggi questi fenomeni esistono ancora: si pensi al caso del sudcoreano Hwang Woo-suk e alla fabbricazione di dati falsi sulla ricerca sulla clonazione umana. Oggi però la frode è anche attuata da ricercatori che non cercano la fama ma vogliono solo costruirsi un curriculum gonfiato che rispetti le aspettative delle valutazioni numeriche. Se una commissione di valutazione si limita ad analizzare il curriculum, può essere favorevolmente impressionata dalla sua lunghezza senza sapere che le pubblicazioni sono in realtà frodi o plagi.

L'evoluzione della frode scientifica
Il britannico Andrew Wakefield, autore di una delle più gravi frodi in ambito scientifico, la correlazione tra vaccini e autismo, risultata infondata e in realtà costruita a tavolino
Cortesia: EPA/Lindsey Parnaby/ANSA

Quali sono gli esempi più comuni?
Ce ne sono molti. Penso al mercato crescente delle conferenze false, che hanno titoli vaghi in modo da permettere alle persone di presentare uno studio su un tema qualsiasi e pubblicarlo negli «atti ». Si tratta di conferenze di cui nessuno sa nulla – siamo sicuri che avvengano davvero? – e atti che nessuno leggerà, ma verranno inseriti nel curriculum. Lo stesso vale per case editrici o riviste oscure: un mercato creato dall’uso della valutazione quantitativa, che produce molte pubblicazioni legittime, alcune dubbie e alcune fraudolente. Inoltre abbiamo a che fare con false lettere di raccomandazione, false peer review o premi a pagamento.

Proliferano anche le riviste digitali, in alcuni casi senza un’attenzione alla qualità
Anche questo permette la crescita del fenomeno dei ricercatori che pubblicano per nascondere il proprio lavoro invece che per farlo conoscere. Nelle università in cui il controllo di qualità è meno stretto ma il numero di pubblicazioni resta la forma principale di valutazione proliferano articoli pubblicati su riviste o case editrici poco visibili o nascoste. Nei casi estremi uno scienziato o un gruppo di ricerca possono mettere in piedi un’intera rivista on line per pubblicarvi i propri studi. In casi più ambigui ci sono invece forme di auto-plagio che sono prodotti collaterali della quantificazione. Per esempio un ricercatore può ripubblicare lo stesso studio con piccole modifiche in diverse riviste, aumentando il numero di pubblicazioni ma non la loro qualità. Naturalmente ci sono forme di ripubblicazione che non sono scorrette, per esempio quelle che fanno circolare un lavoro in lingue o comunità scientifiche diverse, e tracciare il confine è difficile.

Ci sono comportamenti non corretti anche da parte di riviste che pubblicano ricerca affidabile?
Di recente abbiamo saputo dell’esistenza di gruppi di riviste che formano cerchie che si accordano per scambiarsi peer review e citarsi a vicenda: anche le riviste sono soggette a pressioni per aumentare il proprio impact factor. Le riviste con impatto basso possono essere chiuse dall’editore o abbandonate dalle biblioteche, e quindi devono giocare con le regole. In molti casi si tratta di pratiche creative e aggressive ma accettabili, a volte invece ci sono modalità più sospette.

Qual è il ruolo delle classifiche globali usate per valutare le prestazioni delle università?
Molti atenei lavorano con statistici che decidono come presentare i propri dati per adattarli, o almeno massimizzarne la simbiosi con i parametri usati da alcuni ranking diventati importanti, come quello del Times Higher Education o lo Shanghai Ranking. Non voglio criminalizzare questi comportamenti ma pongo la questione: se un economista, scienziato o sociologo adatta i suoi dati di ricerca per renderli più appetibili si parla di frode; non dovrebbe essere lo stesso per le università?

Quali strumenti abbiamo per capire che cosa siano oggi la frode o la cattiva condotta?
Il problema filosofico della distinzione tra comportamenti accettabili e non accettabili non è di facile soluzione. In passato il problema era limitato alla produzione del falso, insomma una distinzione strettamente filosofica: vero contro falso. Le nuove forme di cattiva condotta aggiungono un raggio molto ampio di problemi che sono analizzabili piuttosto in termini sociologici o istituzionali, perché spesso non hanno niente a che fare con la verità. Si violano norme sociali, non epistemologiche. Inoltre occorre una valutazione seria della qualità della ricerca, che affianchi le eventuali misure quantitative.


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Mario Biagioli insegna legge, storia e studi sociali sulla scienza e tecnologia all'Università della California a Davis, dove dirige il Center for Science and Innovation Studies. In passato ha lavorato all'Università della California a Los Angeles e alla Harvard University. Come storico della scienza è autore, tra gli altri, di libri e articoli su Galileo Galilei, sul ruolo della proprietà intellet tuale nella scienza moderna e sull'evoluzione del concetto di autore nella ricerca scientifica. Al momento sta lavorando a L'autore come vegetale, un libro sul ruolo delle metafore ecologiche nelle discussioni contemporanee sui beni comuni della conoscenza. A Davis sta organizzando la conferenza internazionale: Giocare con le regole del gioco: la cattiva condotta nell'era delle metriche.

(Questa intervista è stata pubblicata nel numero 560 di Le Scienze, in edicola ad aprile 2015. Tutti i diritti riservati )