Perché quando guidiamo ci comportiamo da stronzi?

Perché siamo "anonimi" e spesso siamo da soli, in breve: ma ci sono diversi altri motivi, dice Slate

di Bryan Gardiner – Slate

Una scena che potrebbe risultarvi familiare: state guidando in autostrada quando all’improvviso un enorme SUV vi taglia la strada da destra, costringendovi a frenare bruscamente per evitare un incidente. Vi ritrovate nervosamente a urlare insulti contro la persona alla guida del SUV, che non conoscete – e che non può sentirvi – e che inseguirete per i successivi due chilometri solo per dargli una lezione o sfogarvi. Perché succedono cose del genere?

Parte della trasformazione che subiamo quando ci mettiamo alla guida è dovuta a quella che gli psicologi chiamano “deindividualizzazione”. È un termine creato all’incirca negli anni Cinquanta per indicare la perdita di autocontrollo e della percezione di responsabilità individuale. La “deindividualizzazione” può verificarsi in svariati contesti, ma l’anonimato è sempre una della cause principali.

In un famoso studio condotto nel 1970 dallo psicologo Philip Zimbardo, a un gruppo di studentesse della New York University fu chiesto di somministrare delle scariche elettriche ad altri studenti. Alle partecipanti vennero dati dei numeri per sostituire i loro nomi reali. Ad alcune di esse venne anche dato un cappuccio. Zimbardo scoprì che le partecipanti col cappuccio erano due volte più disposte a somministrare delle scariche elettriche rispetto a quelle che avevano “solamente” cambiato il proprio nome in un numero (nessuno si fece male nel corso dello studio).

Secondo lo psicologo Jamie Madigan, sebbene l’anonimato non porta necessariamente ad assumere un comportamento incivile, può generare aggressività e diminuire le inibizioni. Succede per esempio quando si fa parte di un gruppo e si ha la percezione che le conseguenze delle proprie azioni non verranno scontate: cosa che succede nelle chat online e le conversazioni fra videogiocatori. Secondo Madigan l’anonimato «rende le persone suscettibili alla suggestione o alla possibile influenza di condizioni reali o percepite».

Anche le automobili, di conseguenza, sono un ambiente adatto affinché si verifichino queste condizioni. Nel suo libro Traffic. Why We Drive the Way We Do (“Il traffico: perché guidiamo così”), il giornalista Tom Vanderbilt ha spiegato che mentre sono alla guida le persone sono circondate da altra gente – quindi fanno parte di un gruppo – eppure sono isolate, e si percepiscono anonime grazie a quella specie di “guscio” in ferro e vetro.

Quando nello studio di Zimbardo si legge la lista delle condizioni che contribuiscono a creare un senso di “deindividualizzazione”, ci si trova davanti una tipica situazione di guida. Lui stesso nella International Encyclopedia of Psychiatry, Psychology, and Neurology ne ha parlato in questi termini:

«anonimato, responsabilità diffusa, attività di gruppo, alterata percezione temporale, eccitazione e sovraccarico di stimoli sensoriali: sono tutti fattori che possono generare reazioni deindividualizzate»

A peggiorare le cose, sostiene Vanderbilt, i nuovi modelli di automobili e le moderne autostrade prevedono che le persone guidino in silenzio: cosa che le fa impazzire. Mentre si guida, la propria abilità di comunicare viene ridotta a uno stadio primitivo fatto di gestacci, strombazzate di clacson e messaggi luminosi tramite i fari. Tutto questo mentre la nostra sfaccettata identità viene ridotta alla marca di un’auto (quanto sono odiosi quelli che guidano l’ultimo modello di una BMW? E quelli con le Smart?). Combinati assieme, questi fattori costituiscono una potente ricetta per un comportamento aggressivo.

Per gli stessi motivi di quanto scritto sopra, è possibile che anche la percezione che abbiamo degli altri sia semplicistica o sbagliata. Avete presente quello stronzo alla guida dell’enorme SUV? Magari ha dovuto tagliare la strada per evitare di investire un animale. Oppure sei stato proprio tu a comportarti male, e non ti sei accorto che poco prima aveva messo la freccia per provare a sorpassarti.

Mentre siamo alla guida non consideriamo queste possibilità perché ci affidiamo alla pancia invece che alla logica. Siamo arrabbiati e quindi pensiamo che la persona alla guida di quel SUV sia uno stronzo. Fine della storia. È quello che gli economisti chiamano “euristica affettiva”: reazioni di pancia che ci permettono di prendere rapidamente delle decisioni grazie a delle scorciatoie mentali, ma che sono le stesse che ci fanno provare un odio irrazionale per i ciclisti, o per quel tizio inquietante dell’ufficio a fianco.

C’è qualcosa che possiamo fare, a parte smettere di guidare? Sì, trasportare dei passeggeri. Pensateci: raramente chi si trova dentro a una macchina ma non sta guidando si arrabbia quanto il guidatore. Occasionalmente, i passeggeri riescono persino a bilanciare l’istinto del guidatore con pensieri razionali. Vanderbilt ha scritto che secondo alcuni studi «le regioni cerebrali coinvolte nel cervello del guidatore e in quello del passeggero sono diverse». E quindi, tutti quei servizi che permettono di passare del tempo in auto con passeggeri sconosciuti potrebbero fare bene sia alle proprie finanze sia alla propria salute.

© Slate 2015