Il 25 novembre  leggo che Human Right Watch, organizzazione che monitora l’applicazione dei diritti umani nel mondo, denuncia l’intenzione da parte dello Stato afgano di inserire nella riforma del proprio codice penale la lapidazione per le donne accusate di adulterio.

La mia mente vola velocemente a 14 anni fa, alle scene raccapriccianti per cui si erano distinti i Talebani lapidando donne in varie parti del paese, e allo stadio di Kabul, dove al tempo si svolgeva lo “spettacolo” davanti ad una folla di uomini, bambini, donne in burqa; lo stesso stadio dove oggi si va a correre, si gioca a calcio, e si svolgono le competizioni di Buskaschi.

Ho passato tre giorni con questo pensiero-nube chiedendomi “Ma come è possibile?”.  Ho rimescolato dentro di me le storie che mi hanno raccontato in tanti anni le donne afgane, storie in cui la violenza è quotidiana e permanente, in un paese in cui le possibilità di ottenere giustizia da parte dello Stato sono minime, e dove il rispetto in famiglia è troppo spesso un risultato da raggiungere faticoso e in continua costruzione, mai dato per scontato!

Ma oggi una buona notizia, almeno spero rimanga tale. “Non inseriranno la lapidazione nel codice penale e sai perché?”- mi dice Shukria Barakzai, parlamentare afgana durante la pausa in una conferenza in cui è stata invitata in Italia – “perché per l’articolo 7 della Costituzione Afghana è vietato.

Tiro un sospiro di sollievo, per il momento, fino a prova contraria. “Se non abbiamo le leggi non possiamo neanche pensare di modificare le pratiche tradizionali per farci rispettare!”, mi diceva una decina di ani fa una donna impegnata nella ricostruzione della società civile afgana. “Ecco perché il lavoro va fatto con le istituzioni come con le persone.”

E in effetti in un paese come l’Afghanistan il lavoro da fare dal punto di vista della discriminazione delle donne continua ad essere un dato di fatto. Lo testimonia la composizione stessa del sistema giuridico: circa 20.000 giudici per oltre 25milioni di abitanti, di cui neanche 200 sono magistrate donne.

La loro dislocazione nel territorio afghano la dice lunga sulla situazione vissuta da tutte le donne: le magistrate sono presenti in cinque province su 34 sulla base dei dati Unama e sono così suddivise:  10 a Balk, 5 a Herat, 2 a Takhar e Baghlan, tutte le altre 17 a Kabul.

Davanti alle “prove di recupero dei valori talebani” nell’apparato statale afgano da parte di ministri con il beneplacito dei parlamentari e non solo, oggi più che mai, per superare l’impasse e non far ricadere la metà della popolazione nelle condizioni di 14 anni fa, conta il peso positivo che possono giocare le relazioni e gli aiuti internazionali dei Paesi che sostengono a suon di denari il processo di ricostruzione dell’Afghanistan.

Un esempio per tutti lo ha dato un ministro del Regno Unito che, dopo la notizia del 25 novembre, ha chiamato il presidente Karzai per ribadire che la condizione posta al governo di Kabul per ricevere aiuti dal suo Paese è rispettare un chiaro impegno verso il contrasto alla violenza sulle donne in Afghanistan.

Questa vicenda è solo uno dei tanti esempi della sfida da affrontare nel Paese ancora oggi. Soprattutto perché permane la preoccupazione da parte delle organizzazioni di donne afgane di un colpo di mano dei conservatori fondamentalisti sull’inserimento della lapidazione nel codice penale.

A maggior ragione si deve oggi rafforzare il ruolo vigilante della società civile afghana e internazionale e si devono moltiplicare le azioni e i programmi rivolti alla promozione dei diritti umani e della partecipazione delle donne nella vita economica e culturale, al contrasto alla violenza domestica  e dei matrimoni forzati e precoci, per cercare di garantire il diritto ad una esistenza dignitosa per ogni donna, bambina, bambino e uomo, come quelli sostenuti da Pangea e da altre organizzazioni non governative.

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